Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine915-930

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@CORTE DI APPELLO DI MILANO Sez. IV, 20 luglio 2007, n. 2158. Pres. Beretta - Est. Laera - Imp. Budel ed altro

Beni immateriali - Marchio - Contraffazione - Presupposti - Individuazione - Tutela del marchio come lettera dell'alfabeto - Ammissibilità - Condizioni - Fattispecie.

La contraffazione del marchio presuppone un rapporto di comparazione con il marchio genuino, nella sua natura emblematica e/o nominativa e si concretizza nella produzione, nei suoi elementi essenziali, del segno distintivo protetto da brevetto. È certamente registrabile e tutelabile la singola lettera dell'alfabeto con una specifica conformazione propria da divenire un segno caratteristico e inconfondibile. (Nel caso di specie la lettera H di Hermés, maiuscolo e con le «grazie» ha una diffusione mondiale e certamente inconfondibile»). (C.p., art. 473).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con decreto di citazione diretta a giudizio con data 31 marzo 2004, il P.M. presso il Tribunale di Milano rinviava a giudizio Budel Claudio e Colombo Massimo per il reato di cui agli artt. 110, 473 c.p. per avere in concorso fra loro e nella qualità di legali rappresentanti della «High Class Distribution di Claudio Budel e C.» con sede in Milano, via Carducci n. 18, contraffatto i marchi «H», Kelly Birkin e Costance di pertinenza della società Hermés International.

Accertato in Firenze il 24 giugno 1999 e commesso in Milano.

All'esito dell'istruttoria dibattimentale, dopo aver acquisito numerose e voluminose prove documentali da parte dei difensori sia degli imputati che di parte civile, sentiti numerosi testi e i consulenti tecnici, il tribunale in composizione monocratica, visto l'art. 530 c.p.p., assolveva Claudio Budel e Massimo Colombo dal reato loro ascritto perché il fatto non sussiste.

Avverso la decisione proponevano tempestivamente appello la difesa di parte civile, il pubblico ministero e il procuratore generale presso la corte d'appello.

Sostanzialmente i motivi d'appello della difesa di parte civile e del P.M. ripercorrevano in sintesi le seguenti censure così argomentate:

Erronea valutazione delle risultanze processuali in ordine alla valida registrazione del marchio «H» - Hermés.

Dalle dichiarazioni rese durante l'istruzione dibattimentale e dalla produzione documentale presentata in giudizio dalla parte civile, è chiaramente emerso che il marchio «H» è un marchio regolarmente registrato da Hermés in Italia con domanda di deposito quale brevetto per marchio d'impresa del 25 luglio 1983, n. 422579.

Sul punto, conviene anche il tribunale che, dopo aver esaminato la produzione documentale e le ricerche svolte anche dalla difesa degli imputati, ha affermato nella «lettera (...) in data 20 settembre 1999 nella quale egli comunica di aver, finalmente trovato la lettera «H» e ne inviava copia al mittente.[...] Alla fine il risultato può dirsi raggiunto» (p. 7 della sentenza).

La lettera «H», regolarmente registrata dalla società Hermés quale brevetto per marchio di impresa è in carattere di fantasia maiuscolo (la cosiddetta «H con le grazie»).

Pertanto, nessun dubbio sussiste sulla valida registrazione del marchio «H», oggetto della tutela prevista dall'art. 473 c.p. che, come affermato dalla giurisprudenza, punisce la condotta diretta alla contraffazione dei marchi registrati.

Non sono viceversa condivisibili le incertezze espresse dal tribunale circa la possibilità di procedere alla registrazione del marchio consistente in una lettera dell'alfabeto (p. 8 della sentenza).

Tanto la legge nazionale (non ci si deve riferire al nuovo codice di proprietà industriale D.L. 10 febbraio 2005 n. 30, ma al R.D. 21 giugno 1942, n. 922, la cosiddetta Legge Marchi), quanto il regolamento sul marchio comunitario, contengono norme dirette a definire la categoria dei segni idonei a costituire un valido marchio.

Con riferimento ai requisiti sostanziali di idoneità dei diversi segni si deve dunque esaminare, preliminarmente, la regola generale enunciata nell'art. 16 Legge Marchi, avvalorata dall'art. 4 del regolamento sul marchio comunitario.

Tali norme consentono la registrazione come marchio di tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, perché atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese.

L'art. 16 della Legge Marchi (R.D. 21 giugno 1942 n. 922) stabilisce espressamente che «Possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa tutti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche purché siano atti a distinguere i prodotti di altre imprese e salvo il disposto degli articoli 10 e 21».

La dottrina ha poi precisato sul punto che «Se è vero infatti che deve riconoscersi la piena validità diPage 916 marchi come il celebre "4711" per un'acqua di colonia, o come quelli costituiti dalla combinazione delle lettere "LV" di Vuitton, o delle "C" di Chanel, non sembra si possa negare la capacità distintiva a segni costituiti da un solo numero o da una sola lettera, come nel caso del marchio costituito dal numero "5" usato per i profumi Chanel, dello stesso numero "5" che contraddistingue una notissima rete televisiva, del marchio "Uno" di Ungaro e "H" di Hermés»1.

Secondo la vigente normativa, come correttamente interpretata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, è pertanto pacifica la registrabilità di un marchio costituito da una singola lettera dell'alfabeto, come la «H» di Hermés.

Non si comprende pertanto come il tribunale abbia potuto ritenere fondate le affermazioni del consulente della difesa degli imputati, il quale, nel suo documento n. 15 prodotto in dibattimento, in modo assolutamente arbitrario afferma che «una lettera dell'alfabeto non potrebbe costituire oggetto di un marchio»2.

Numerose e unanimi sono le pronunce giurisprudenziali in tema di marchi costituiti da lettere dell'alfabeto e sigle, tra cui la sentenza qui di seguito citata, che pone l'attenzione proprio sulla registrabilità di una lettera dell'alfabeto, considerato marchio forte, e sul significato, ad essa collegato, di secondary meaning3.

Sul punto, la sentenza del Tribunale di Brescia (sent. 9 giugno 1993, pres. Bonavitacola, Fila Sport, in Giur. ann. dir. ind. 1993, p. 620) ha affermato che: «Un marchio costituito da una lettera dell'alfabeto deve essere considerato forte quando questa lettera corrisponde all'iniziale della denominazione dell'impresa titolare del marchio ed è indubbiamente associata nella mente dei consumatori con imponenti campagne pubblicitarie, ai prodotti contraddistinti».

Alla luce di tali principi, chiaramente affermati alla giurisprudenza e dalla dottrina, non si comprendono i dubbi espressi dal tribunale, laddove afferma che «la vicenda intesa a chiarire se davvero una sola lettera possa ricevere tutela penalistica da parte di chi la imiti davvero non può dirsi approdata ad univoche conclusioni nell'ambito del presente contesto processuale» (p. 9 della sentenza).

Trattasi, infatti, di una questione giuridica che deve essere semplicemente decisa alla luce della vigente normativa e non di una questione di fatto che possa essere lasciata in dubbio.

Secondo la giurisprudenza citata e l'unanime interpretazione della dottrina, si deve invece con certezza ritenere ammessa dalla attuale normativa la registrazione di un marchio consistente in una lettera dell'alfabeto, quale la lettera «H», notoriamente distintiva del marchio Hermés. La decisione sul punto deve, pertanto, essere riformata.

Erronea applicazione delle norme penali in materia di contraffazione dei marchi.

Il giudice di primo grado, dopo aver riportato l'orientamento della Cassazione che ha chiaramente stabilito la sussistenza del reato di cui all'art. 473 c.p. «tutte le volte in cui il marchio contraffatto si presenta, nella sua espressione unitaria, come imitazione e controfigura di quello genuino» (cfr. per tutte Cass., sez. V, 9 febbraio 1970, Osta, CED 113933), ha poi disatteso tale principio, affermando che «in senso penalistico e tenuto conto del delineato ambito di applicazione dell'art. 473 c.p., sono tra loro affini i prodotti che, quando portino lo stesso marchio o marchi simili, possono ragionevolmente far pensare al consumatore di provenire dalla stessa fonte» (p. 11 della sentenza).

Per valutare la sussistenza della contraffazione il riferimento non deve farsi alla confondibilità in concreto fra i prodotti, né assumono rilevanza le condizioni di vendita o il prezzo al quale il prodotto viene venduto, né si richiede l'effettivo inganno del singolo acquirente. Ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato di cui agli artt. 473 e 474 c.p. è invece solo l'esame comparativo del marchio originale e di quello contraffatto.

Sul punto la Cassazione ha, infatti, chiaramente precisato che «al fine di individuare una siffatta situazione è sufficiente, ma imprescindibile un raffronto tra i segni in sé considerati, posto che nell'ambito del reato di cui sopra [art. 473 c.p.] ciò che incide è la possibilità di confusione del marchio e non del prodotto» (Cass. 7 agosto 1996, n. 7720, RV 205552).

Al riguardo, si deve ricordare anche la recentissima pronuncia della Suprema Corte di Cassazione qui allegata (Cass. pen., sez. II, c.c. 11 maggio 1005, dep. 17 giugno 2005, pres. Morgini, proc. n. 9581/05) che, annullando il provvedimento del Tribunale del riesame di Genova, ha affermato che «la fattispecie di cui all'art. 474 c.p. (come quella dell'art. 473 c.p.) è volta a tutelare in via principale e diretta, non la libera determinazione dell'acquirente, bensì la pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell'ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la genuinità dell'origine. Si tratta dunque di un reato di pericolo, per la cui configurazione non è...

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