Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine587-609

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@CORTE DI ASSISE DI PALERMO Sez. IV, 18 aprile 2007, n. 11. Pres. Loforti - Est. Balsamo - Imp. Rizzo ed altro.

Prova penale - Testimoni - Testimone assistito - Valutazione - Riscontro esterno - Necessità - Valutazione - Fattispecie.

Nella valutazione delle dichiarazioni del testimone assistito, occorre valorizzare la sussistenza e la concreta incidenza dell'obbligo di verità a carico del dichiarante, al fine di determinare l'entità del riscontro esterno idoneo a confermare l'attendibilità delle sue affermazioni. L'entità del riscontro esterno deve essere particolarmente elevata quando si tratti di valutare il contributo probatorio di soggetti che non sono «terzi estranei» rispetto alla regiudicanda e possono avere un interesse, diretto o indiretto, ad un determinato esito del giudizio, mentre può essere più ridotta quando le dichiarazioni di accusa provengono da soggetti che sono sicuramente estranei al fatto per cui si procede; che sono privi di ogni possibile interesse a un determinato esito del giudizio, e che, per la loro concreta posizione processuale, possono avvertire con forza gli effetti giuridici dell'obbligo di verità su di essi gravante, in quanto l'accertata formulazione di false accuse comporterebbe conseguenze suscettibili di modificare pesantemente, in peggio, la loro condizione personale e familiare. Nella valutazione delle dichiarazioni del testimone assistito, occorre, infine, evitare una impostazione fondata su standard di tipo «automatico» e «quantitativo», ed indirizzarsi, invece, verso l'impiego di criteri qualitativi adattabili alle caratteristiche dei casi concreti. (Nel caso di specie, la condanna di due soggetti per un «omicidio di mafia» è stata fondata principalmente sulle dichiarazioni rese da una testimone assistita, che era legata da persistenti vincoli affettivi agli imputati - uno dei quali era suo marito, e l'altro il cugino del medesimo -, che era completamente estranea al fatto costituente oggetto del processo, che inoltre non aveva alcun interesse a scagionare altre persone da responsabilità ovvero ad aggravarne la posizione processuale, e che aveva iniziato la propria collaborazione con la giustizia, per effetto della presa di coscienza delle proprie responsabilità verso i figli con cui intendeva tracciare un percorso esistenziale ispirato a valori antitetici ai codici culturali mafiosi. Inoltre la stessa non doveva scontare alcuna sanzione penale, e non era imputata per reati di qualche rilievo, mentre la formulazione di false accuse l'avrebbe esposta a gravi conseguenze sanzionatorie, alla revoca della sospensione condizionale della pena precedentemente applicatale, ed alla perdita dei benefici connessi al programma di protezione, rendendo completamente irrealizzabili i suoi progetti di vita personali e familiari). (C.p.p., art. 197; c.p.p., art. 192).

MOTIVI DELLA DECISIONE. - (Estratto).

La peculiare situazione del testimone assistito: le indicazioni della giurisprudenza costituzionale sulla correlazione tra obbligo di verità del dichiarante ed entità dei riscontri esterni.

In forza del richiamo effettuato dall'art. 197 bis c.p.p., le dichiarazioni rese dal testimone assistito devono essere valutate, secondo quanto previsto dall'art. 192 comma 3 c.p.p., «unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità».

Al riguardo, in dottrina si è osservato che il legislatore, pur avendo previsto per il testimone assistito l'obbligo di rispondere e di dire il vero, sembrerebbe

avere stabilito una presunzione di ridotta affidabilità ex lege dello stesso. Una siffatta opzione appare decisamente problematica, ove si rifletta che, in via generale, un'analoga regola non è applicabile alla valutazione delle dichiarazioni provenienti da soggetti - come, ad esempio, le persone offese o i prossimi congiunti - la cui posizione, in ragione della loro non indifferenza all'esito del processo, potrebbe essere assimilata a quella del testimone assistito.

In realtà, se venisse interpretata in termini eccessivamente rigidi, la suesposta disciplina spingerebbe il processo penale italiano in una direzione opposta rispetto alle tendenze di fondo verso cui si stanno indirizzando gli ordinamenti di matrice accusatoria, che hanno rappresentato il modello ispiratore della regolamentazione introdotta dall'art. 192 c.p.p.

Assai significativa è la più recente evoluzione dell'ordinamento inglese, in cui si registra un deciso potenziamento del principio del libero convincimento nella valutazione delle dichiarazioni dei correi.

In proposito, occorre premettere che, nell'approfondita elaborazione compiuta in Inghilterra sul diritto delle prove, il problema della credibilità della testimonianza del compartecipe non assume caratteristiche del tutto peculiari, ma è considerato strutturalmente simile a quello di testimonianze provenienti da soggetti diversi, ritenuti anch'essi fonti di prova «a rischio».

Come è stato acutamente rilevato in dottrina, questa impostazione appare fruttuosa, perché da un lato, permette un'analisi più organica del tema, e dall'altro evita il rischio di strumentalizzazioni in grado di in-Page 588velenire la delicata questione premiale relativa a determinati reati.

Secondo i principi generali del sistema accusatorio inglese, ai fini della prova della responsabilità penale dell'imputato, è sufficiente la testimonianza di un solo soggetto, anche se priva di ulteriori riscontri; tuttavia l'esperienza giudiziaria ha evidenziato il rischio che le dichiarazioni di determinati testimoni, non accompagnate da ulteriori prove, portino alla condanna di innocenti.

L'esigenza di una conferma probatoria (corroboration) ha tradizionalmente formato oggetto di regole di pratica che richiedevano che in determinati casi il giudice «mettesse in guardia» la giuria.

Questo avvertimento era tradizionalmente dovuto con riferimento a tre categorie di testimoni considerati «sospetti»: i compartecipi (accomplices), i querelanti in materia di reati sessuali, ed i bambini. In questi casi il giudice doveva, quindi, dare un avviso alla giuria, evidenziando il pericolo di condanne basate su una prova non corroborata.

La giuria, comunque, restava libera di disattendere l'avvertimento e di condannare l'imputato, anche in assenza di ulteriori prove confermative della testimonianza dei predetti dichiaranti.

Questa disciplina ha costituito il modello di quella importata in Italia con il nuovo codice di procedura penale rispetto alla figura dell'imputato di reato connesso: l'introduzione dell'art. 192 comma 3 nel nuovo codice, secondo le osservazioni espresse nella Relazione al progetto preliminare, è stata compiuta sulla scia delle esperienze dei Paesi in cui vige il sistema accusatorio, nel quale la valutazione della accomplice evidence (cioè della testimonianza del complice) è accompagnata dalla corroboration.

È evidente, comunque, che sin dall'inizio la disciplina italiana era più rigida di quella del processo inglese, perché pretendeva che le dichiarazioni del collaboratore di giustizia fossero in ogni caso assistite da riscontri.

Tale divergenza, in seguito, è divenuta ancor più vistosa, dato che in Inghilterra le regole di pratica, cui si è fatto riferimento, sono state abolite, per i minori, dal Criminal Justice Act del 1988, e, per i compartecipi del reato e le vittime di reati sessuali, dal Criminal Justice and Public Order Act del 1994; non vi è più quindi un obbligo del giudice di ammonire la giuria circa i pericoli di condannare sulla sola base della testimonianza dei soggetti in questione.

La Law Commission for England and Wales ha raccomandato di non sostituire le regole abrogate, ritenendo che l'imputato possa ricevere adeguata protezione dalle regole e dalla prassi comune in materia di prove. In proposito, si è affermato che nuove regole scritte creerebbero formalismi non necessari ed ingiuste categorizzazioni di testimoni.

Si è quindi deciso di ricondurre al potere discrezionale del giudice la scelta di invitare la giuria ad adottare una particolare cautela prima di fondare il proprio verdetto sulla deposizione di un testimone non corroborata da altri elementi di prova. In sostanza, la testimonianza del compartecipe non è più considerata di per sè pericolosa, sulla base della sola qualifica del dichiarante; tale deposizione sarà valutata alla stregua dei normali criteri probatori, salvo che, secondo le circostanze concrete, non emerga il rischio del possibile inquinamento della testimonianza dovuto a scopi personali che il complice potrebbe perseguire. In tal caso il giudice è tenuto ad avvertire la giuria affinché proceda con cautela nella valutazione della deposizione. Una regola analoga vale per il coimputato, che difendendosi, accusi altri coimputati; in tal caso, il giudice deve avvertire la giuria di esaminare la testimonianza del coimputato con particolare cautela, poiché egli ha interesse a «scaricare» (interamente o parzialmente) la propria responsabilità sui coimputati.

Nella valutazione delle prove, la più recente tendenza dell'ordinamento inglese è, dunque, quella di superare i tradizionali standard di tipo «quantitativo» riguardanti la corroboration, per indirizzarsi verso regole strutturate di ragionamento, fondate sull'impiego di criteri qualitativi o sull'uso dei metodi volti a «combinare» una molteplicità di elementi di prova.

Sotto questo profilo, il sistema italiano - nel disciplinare l'utilizzazione e la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia assolutizzando la regola della corroboration, per gli imputati di reato connesso o collegato, ed estendendo la necessità dei riscontri alle dichiarazioni dei testimoni assistiti - parrebbe essersi distaccato dalle direttrici di sviluppo del modello processuale accusatorio.

Tuttavia, una significativa spinta, nel senso della elaborazione di soluzioni comuni tra i diversi ordinamenti, proviene da una recente indicazione ermeneutica della Corte costituzionale, che, con...

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