Giurisprudenza di legittimitá

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. I, 30 ottobre 2003, n. 41333 (c.c. 11 luglio 2003). Pres. Silvestri - Est. Cassano - P.M. Veneziano (diff.) - Ric. Mohammad Taher Fedai ed altri.

Difesa e difensori - Di ufficio - Latitante - Proposizione di ricorso per cassazione avverso decisioni del tribunale del riesame - Ammissibilità - Iscrizione all'albo speciale - Esclusione - Irrilevanza. Fonti del diritto - Legge penale - Territorialità - Reato commesso all'estero da uno straniero in danno di cittadino italiano - Perseguibilità in Italia - Condizione di procedibilità - Individuazione - Applicazione di misure cautelari - Fattispecie.

Il difensore d'ufficio del latitante, rappresentando quest'ultimo ad ogni effeto di legge, ai sensi dell'art. 165, comma terzo, c.p.p., ed essendo abilitato, in base al disposto di cui all'art. 99, comma 1, stesso codice, ad esercitare in sua vece tutti i diritti e le facoltà che non siano personalmente riservati all'imputato, può validamente proporre ricorso per cassazione avverso decisioni del tribunale del riesame anche senza essere iscritto all'albo speciale di cui all'art. 613 c.p.p. (Mass. Redaz.). (C.p.p., art. 165; c.p.p., art. 99) (1).

Nel caso di delitti commessi all'estero da uno straniero in danno di un cittadino italiano, la presenza del colpevole nel territorio dello Stato, richiesta dall'art. 10 c.p.p. per la loro perseguibilità in Italia, costituisce condizione di procedibilità la cui sussistenza è richiesta anche ai fini dell'applicazione di misure cautelari da adottarsi nella fase delle indagini preliminari. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha annullato senza rinvio il provvedimento del tribunale che, in accoglimento di gravame proposto dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 310 c.p.p., aveva disposto l'applicazione della custodia in carcere nei confronti di taluni soggetti, non presenti nel territorio nazionale, cui si addebitava l'omicidio, commesso in Afganistan, di una giornalista italiana). (Mass. Redaz.). (C.p.p., art. 10) (2).

    (1) In senso conforme, si vedano Cass. pen., sez. V, 5 giugno 2000, Jonuzi, in questa Rivista 2001, 96 e Cass. pen., sez. V, 5 agosto 1999, Amato, ivi 2000, 96.

(2) Non si rinvengono precedenti giurisprudenziali in termini. In generale, in tema di reati commessi in parte all'estero, si veda Cass. pen., sez. VI, 17 febbraio 1994, Murdocca, in Riv. pen. 1994, 1134; in tema di competenza per reati commessi all'estero, si vedano Cass. pen., sez. VI, 29 novembre 2000, Tenaglia, ivi 2001, 261 e Cass. pen., sez. I, 4 aprile 1995, Shourkrj, ivi 1996, 373.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con ordinanza del 13 marzo 2003 il Tribunale di Roma accoglieva l'impugnazione proposta dal pubblico ministero avverso l'ordinanza datata 13 gennaio 2003 con la quale il Gip del Tribunale di Roma aveva rigettato la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Mohammad Taher Fedai, Miwa Jan, Mar Jan e per l'effetto disponeva nei loro confronti ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere in ordine ai delitti di rapina pluriaggravata (art. 110, 628, comma 3 n. 1 c.p.) e omicidio volontario aggravato (artt. 110, 575 c.p.), commessi in Afghanistan, sulla strada Kabul-Jalalabad nel distretto di Sarobi, il 19 novembre 2001 in danno della giornalista italiana Maria Grazia Cutili.

I fatti contestati risalgono al 19 novembre 2001, epoca in cui la giornalita italiana Maria Grazia Cutuli veniva uccisa insieme con altri tre suoi colleghi di nazionalità straniera, mentre, a bordo di un'autovettura presa a noleggio condotta da un'autista locale, stava raggiungendo Kabul, liberata pochi giorni dopo la caduta del regime dei talebani.

Nel febbraio 2002 la Digos di Roma comunicava che le autorità afgane avevano tratto in arresto Mohammad Taher Fedai, ritenuto uno dei responsabili dell'omicidio, il quale era stato trovato in possesso di effetti personali della giornalista italiana. Sulla scorta delle dichiarazioni da costui rese venivano identificati Miwa Jan e Mar Jan, trovati anch'essi in possesso di oggetti di proprietà delle vittime.

Il Procuratore della Repubblica di Roma formulava richiesta di applicazione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere nei confronti di Mohammad Taher Fedai, Miwa Jan, Mar Jan in ordine ai delitti di rapina aggravata e omicidio volontario, commessi in danno della giornalista italiana Maria Grazia Cutuli.

Veniva contestualmente allegata, ai sensi dell'art. 10 c.p., la domanda del Ministro della giustizia.

Il 13 gennaio 2003, il giudice per le indagini preliminari respingeva la richiesta, senza entrare nel merito, rilevando la mancanza dell'ulteriore condizione di procedibilità, costituita, a norma del citato art. 10 c.p., dalla presenza degli indagati nel territorio dello Stato.

Il Tribunale di Roma, costituito ex art. 309 c.p.p., investito della impugnazione proposta dal pubblico ministero avverso l'ordinanza reiettiva della richiesta di applicazione della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere, accoglieva il ricorso, sul presupposto che la presenza del reo nel territorio dello Stato costituisca non una condizione di procedibilità, bensì una condizione di punibilità, intesa come possibilità giuridica di irrogare la sanzione in presenza di un reato già perfetto.

Rilevava, inoltre, sulla base dell'interpretazione sistematica degli artt. 344 e 129 c.p.p., che l'assenza di una condizione di procedibilità può essere eccepita non nella fase «procedimentale» delle indagini preliminari, bensì solo nelle fasce del «processo».

Nel merito il Tribunale di Roma riteneva sussistenti tutti i presupposti per l'emissione dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere.

Avverso il citato provvedimento ha proposto ricorso per cassazione il difensore d'ufficio degli indagati, designato contestualmente all'emissione dei decreti di irreperibilità Page 534 degli indagati e non iscritto all'albo delle giurisdizioni superiori, rappresentando le seguenti questioni:

- il potere di rappresentanza di indagati irreperibili ex art. 159, comma 2, c.p. lo legittima a compiere gli stessi atti che la legge riserva al difensore del latitante o dell'evaso e, quindi, a proporre ricorso per cassazione, pur non essendo iscritto all'albo degli avvocati legittimati a patrocinare dinanzi alla Corte di cassazione;

- l'ordinanza impugnata è affetta da violazione di legge in conseguenza dell'erronea interpretazione dell'art. 10 c.p. adottata dal tribunale; la norma, infatti, configura la presenza dell'indagato straniero sul territorio dello Stato come condizione di procedibilità; il provvedimento impugnato, pertanto, viola gli artt. 343 e 344 c.p.p. in relazione al combinato disposto degli artt. 50 e 129 c.p.p.;

- l'ordinanza del Tribunale del riesame di Roma è nulla, inoltre, per carenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 c.p.p. e per insussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 274, commi b) e c) c.p.p.

MOTIVI DELLA DECISIONE. 1. - Preliminarmente deve essere affrontata la questione se il difensore d'ufficio di indagato latitante, non iscritto nell'albo speciale di cui all'art. 613 c.p.p., sia legittimato a proporre il ricorso per cassazione contro la decisione del tribunale del riesame che, in accoglimento dell'appello del pubblico ministero, abbia applicato la misura della custodia cautelare in carcere.

La disposizione dell'art. 613 c.p.p. deve essere letta ed interpretata alla luce degli artt. 99, comma 1, c.p.p. (al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all'imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest'ultimo) e 165, comma 3, c.p.p. (l'imputato latitante o evaso è rappresentato ad ogni effetto dal difensore).

Quest'ultima disposizione ha una portata più ampia di quanto non indichi la rubrica (notificazioni all'imputato latitante o evaso) dell'articolo, che trova completa regolazione nel primo comma.

Di conseguenza, nel contenuto della norma va riconosciuta l'attribuzione al difensore di un lato potere di rappresentanza dell'imputato latitante o evaso, desumibile dai seguenti indici:

- la collocazione sistematica del terzo comma dell'art. 165 c.p.p., preceduto da altro comma contenente la previsione di carattere generale in base alla quale all'imputato privo di difensore deve esserne nominato uno d'ufficio;

- la dizione testuale del terzo comma dell'art. 165 c.p.p., il quale stabilisce che il potere di rappresentanza del difensore vale ad ogni effetto;

- la mancanza, nell'art. 165 c.p.p., di una previsione limitativa analoga a quella contenuta nel primo comma dell'art. 99 c.p.p. che, al contrario, esclude i casi in cui facoltà e diritti siano dalla legge riservati personalmente all'imputato.

In base a questi elementi si può affermare che con l'attribuzione di una rappresentanza ad ogni effetto si è voluto assicurare la piena tutela dei diritti di difesa dell'imputato, mediante il conferimento al difensore di un potere di rappresentanza anche nei casi in cui altre norme riservano personalmente all'imputato non evaso o latitante il loro esercizio (v. in tal senso Sez. Un., 27 gennaio 1995, n. 18, ric. Battaglia, riv. 199805; sez. V, 5 agosto 1999, n. 9945, ric. Amato G. ed altri, riv. 213969).

Il principio enunciato nella sentenza delle Sezioni Unite riguarda, invero, il potere di ricusazione del difensore, ma nella motivazione del provvedimento si precisa che l'eccezione alle norme che richiedono l'esercizio personale da parte dell'imputato di determinati diritti o facoltà trova un limite nella ratio legis di tutelare la difesa dell'imputato in modo che non soffra limitazioni nel caso di latitanza e di evasione.

Viene, quindi, esclusa tale deroga ogni volta che la rappresentanza del difensore si possa estendere all'esercizio di poteri processuali dispositivi che richiedano, come tali, una manifestazione personale di volontà del soggetto interessato, quali le facoltà di cui all'art. 438...

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