Giurisprudenza di legittimitá

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine1169-1198

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. un., 20 settembre 2005, n. 33748 (c.c. 21 giugno 2005). Pres. Marvulli - Est. Canzio - P.M. Siniscalchi (diff.) - Ric. Mannino.

Associazione per delinquere - Associazione di tipo mafioso - Scambio elettorale politico-mafiosoConcorso esterno - Configurabilità.

È configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso nell'ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso, in forza del quale il personaggio politico, a fronte del richiesto appoggio dell'associazione nella competizione elettorale, s'impegna ad attivarsi una volta eletto a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere organicamente inserito in esso, a condizione che: a)gli impegni assunti dal politico, per l'affidabilità dei protagonisti dell'accordo, per i caratteri strutturali dell'associazione, per il contesto di riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della correttezza; b)all'esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sè e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell'accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali. (C.p., art. 416 ter) (1).

    (1) In argomento si segnala Cass. pen., sez. V, 30 gennaio 2003, Gorgone, in questa Rivista 2003, 557, secondo cui il reato di scambio elettorale politico-mafioso (previsto dall'art. 416 ter c.p.) si perfeziona nel momento della formulazione delle reciproche promesse, indipendentemente dalla loro realizzazione, essendo rilevante, per quanto riguarda la condotta dell'uomo politico, la sua disponibilità a venire a patti con la consorteria mafiosa, in vista del futuro e concreto adempimento dell'impegno assunto in cambio dell'appoggio elettorale.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. 1. - Calogero Mannino deve rispondere del delitto di concorso eventuale nell'associazione mafiosa Cosa Nostra, «per avere - avvalendosi del potere personale e delle relazioni derivanti dalla sua qualità di esponente di rilievo della Democrazia Cristiana siciliana, di esponente principale di una importante corrente del partito in Sicilia, di segretario regionale del partito nonché di membro del consiglio nazionale dello stesso - contribuito sistematicamente e consapevolmente alle attività e al raggiungimento degli scopi criminali di Cosa Nostra, mediante la strumentalizzazione della propria attività politica, nonché delle attività politiche ed amministrative di esponenti della stessa area, collocati in centri di potere istituzionale (amministratori comunali, provinciali e regionali) e sub-istituzionali (enti pubblici e privati) onde agevolare la attribuzione di appalti, concessioni, licenze, finanziamenti, posti di lavoro ed altre utilità in favore di membri di organizzazioni criminali di stampo mafioso. Con le aggravanti costituite dall'essere Cosa Nostra un'associazione armata volta a commettere delitti, nonché ad assumere e mantenere il controllo di attività economiche mediante risorse finanziarie di provenienza delittuosa. In territorio di Agrigento, Trapani, Palermo e altrove, fino al 28 settembre 1982 (artt. 110 e 416 c.p.) e poi fino al marzo 1994 (artt. 110 e 416 bis c.p.)».

Il Tribunale di Palermo, dopo avere postulato per la configurabilità della fattispecie criminosa la necessità di individuare concrete, positive e sistematiche condotte aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell'organizzazione mafiosa, accompagnate dalla consapevolezza e volontà del contributo apportato, e avere esaminato analiticamente, in successione cronologica, una serie di episodi di cui il Mannino era stato protagonista per un arco temporale di quasi un ventennio dal 1974 al 1994, è pervenuto con sentenza del 5 luglio - 29 dicembre 2001 all'assoluzione dell'imputato con la formula di cui all'art. 530 comma 2 c.p.p. «perché i fatti non sussistono», non essendo emersi all'esito dell'istruzione dibattimentale certi e sufficienti elementi di prova di responsabilità a carico dello stesso. Le condotte dell'imputato, esaminate seguendo la cronologia degli eventi, pur non essendo esenti da censurabili legami e rapporti non occasionali fin dalla seconda metà degli anni '70 con esponenti delle famiglie mafiose agrigentina e palermitana di Cosa Nostra, sarebbero interpretabili in chiave di «vicinanza» e «disponibilità», secondo una causale di tipo elettorale-clientelare o anche corruttiva, ma non quali contributi di favore destinati al consolidamento dell'organizzazione mafiosa, sì che in esse, non essendo espressione di un sistematico rapporto sinallagmatico fra Mannino e Cosa Nostra, non sarebbero configurabili gli elementi costitutivi del concorso esterno. Specificamente:

a) I rapporti con Nino e Ignazio Salvo. L'episodio più risalente nel tempo riguardava la pretesa condotta agevolatrice nei confronti dei Salvo, gestori di numerose esattorie comunali, della cui collocazione mafiosa l'imputato sarebbe stato a conoscenza, al fine di contribuire al rafforzamento di Cosa Nostra. I fatti in-Page 1170dividuati dal P.M. come espressione di «appoggio» ai Salvo (anche sulla base delle generiche e indirette dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pennino, Siino e Lanzalaco, per i quali il Mannino avrebbe aiutato i Salvo quando rivestiva la carica di assessore regionale alle finanze) risalirebbero al 1974 e consisterebbero: nell'avere affidato ai Salvo la gestione della ricca esattoria di Siracusa, un tempo concessa alla Langione Srl, mediante un surrettizio accorpamento ad essa delle esattorie vacanti e più povere, sparse su tutto il territorio regionale e distanti da Siracusa, così da dissuadere il Langione, non munito di adeguato apparato organizzativo, dal riconfermare la richiesta di aggiudicazione; nonché nel non avere promosso una riforma legislativa in campo esattoriale che, consentendo di affidare il servizio di riscossione delle imposte a enti pubblici o a istituti bancari, privasse i Salvo della egemonia posseduta con aggi superiori al resto d'Italia.

La sentenza di primo grado, riassunta la situazione normativa riguardante il servizio di riscossione dei tributi affidato in Sicilia ad esattori privati e considerato che nel regolamentare la materia la Regione, con L. 21 dicembre 1974 n. 40 proposta dal Mannino e approvata quasi all'unanimità, deliberò l'accorpamento delle esattorie povere e vacanti a quelle ricche e la riduzione graduale della misura degli aggi secondo il D.P.R. 29 settembre 1973 n. 603 (decreto Visentini), concludeva che la disciplina regionale, anziché configurarsi come agevolatrice dei Salvo, fosse finalizzata al perseguimento dell'interesse pubblico. Si sarebbe potuto individuare una condotta di favore nel conferimento ai Salvo della gestione dell'esattoria di Siracusa, in forza del criterio di aggregazione delle esattorie povere e vacanti a quelle ricche, ma tale favore non aveva peso determinante, mancando all'epoca la consapevolezza dell'organica appartenenza dei Salvo a Cosa Nostra (secondo la significativa testimonianza dell'on. Mattarella) e sembrando l'episodio ascrivibile ad una logica di mediazione tra gli interessi del gruppo imprenditoriale e l'interesse pubblico. Sarebbero ancora riconducibili alla logica dei rapporti «istituzionali» e alla generale e deprecabile prassi «clientelare» di relazioni tra pubblico amministratore e imprenditori le assunzioni di tre soggetti «raccomandati» dal Mannino nelle aziende dei Salvo.

b) I rapporti con Cosa Nostra di Agrigento. Nella roccaforte agrigentina (giusta le convergenti dichiarazioni dei collaboratori Virone, Leto, Di Carlo, Siino e Bono Benedetta) non sarebbero mancati fin dalla metà degli anni '70 i contatti del Mannino con esponenti di vertice della locale cosca mafiosa quali Salemi, Settecasi, Colletti, De Caro, Vella. Ma, in assenza di prova di specifiche condotte intese a favorire Cosa Nostra, detti rapporti e i singoli episodi di partecipazione a taluni incontri con questi personaggi (il 10 settembre 1977 testimone alle nozze Caruana; nel dicembre 1978 ospite ad un pranzo di ufficiali medici presso la Taverna Mosè cui era presente Settecasi; tra il 1979 e il 1980 incontro con Salemi a Roma, per la concessione di un subappalto dalla soc. Icori alla soc. Samovi facente capo al primo, per il quale non erano emersi elementi idonei a corroborare la veridicità dell'assunto indiretto di Virone di un interessamento del politico; il 29 agosto 1988 testimone alle nozze della figlia di Di Maida, già segretario provinciale della D.C. e imparentato con esponenti mafiosi agrigentini, giustificata dalla comune militanza nello stesso partito), andavano tutti letti in chiave elettorale-clientelare e valutati in termini di «vicinanza» politica a Mannino delle famiglie mafiose in quel contesto provinciale che costituiva la base del suo elettorato.

c) Il patto elettorale politico-mafioso risalente al 1980-1981. In relazione agli incontri con Gioacchino Pennino (segretario della sezione D.C. di Palermo-Brancaccio, della corrente cianciminiana, e uomo d'onore «riservato» della famiglia di Brancaccio) e con Antonio Vella (esponente della cosca agrigentina), che secondo l'attendibile e riscontrata versione di Pennino sarebbero serviti per gettare le basi di un accordo elettorale diretto all'espansione del Mannino dal feudo di Agrigento al territorio palermitano, fino ad allora dominato dalle correnti degli on. Lima e Ciancimino, la sentenza riconosce al patto una precisa connotazione mafiosa per la genesi degli incontri e per i ruoli e gli atteggiamenti dei pratagonisti. Vella, accompagnato da Salvatore Lattuca, uomo di rango della famiglia agrigentina, aveva incontrato Pennino prima presso l'abitazione di Giuseppe Di Maggio, capo della...

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