Giurisprudenza di legittimità

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine325-375

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. un., 9 marzo 2000, n. 30 (c.c. 15 dicembre 1999). Pres. Viola - Est. Colarusso - P.M. (diff.) - Ric. P.M. in proc. Bettin.

Falsità in atti - In atti pubblici - Falsità ideologica - Commessa da privato - Configurabilità - Presupposti - Esistenza dell'obbligo giuridico del privato di dichiarare la verità - Necessità - Falsa denunzia di smarrimento di assegni - Configurabilità del reato ex art. 483 c.p. - Esclusione.

Il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) è configurabile non solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all'atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l'efficacia probatoria dell'atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero; ne deriva che non può integrare il reato de quo la falsa denuncia di smarrimento di un assegno effettuata mediante dichiarazione raccolta a verbale da un ufficiale di polizia giudiziaria, alla quale nessuna disposizione conferisce l'idoneità a provare la verità del fatto denunciato e la preesistenza del documento asseritamente smarrito. (Mass. redaz.). (C.p., art. 483) (1).

    (1) Con la sentenza in epigrafe, le sez. un. aderiscono all'orientamento giurisprudenziale prevalente espresso da: Cass. pen., sez. un., 31 marzo 1999, Lucarotti, in questa Rivista 1999, 454; Cass. pen., sez. V, 12 novembre 1999, Fratamico, ivi 2000, 24; Cass. pen., sez. V, 21 ottobre 1999, Prencipe, ivi 2000, 160; Cass. pen., sez. V, 20 febbraio 1998, Rachel, ivi 1998, 715; Cass. pen., sez. V, 12 dicembre 1996, Maimone, ivi 1997, 634 e Cass. pen., sez. VI, 9 luglio 1993, Paiewski, ivi 1994, 673. Contra, nel senso di ritenere configurabile il reato di falsità ideologica qualora il privato dichiari falsamente al pubblico ufficiale lo smarrimento di un assegno, cfr. Cass. pen., sez. V, 27 gennaio 1998, Piso, ivi 1998, 620; Cass. pen., sez. V, 6 marzo 1997, Tangorra, ivi 1997, 640 e Cass. pen., sez. V, 30 gennaio 1996, Pellecchia, ivi 1996, 1011.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con sentenza in data 24 gennaio 1998 il Pretore di Venezia ha prosciolto con ampia formula Bertin Natale dal reato di cui all'art. 483 c.p. avendo ritenuto che la falsa denuncia di smarrimento di assegni bancari sporta dal Bertin ai Carabinieri di Iesolo non costituiva falso ideologico non essendo l'atto destinato da alcuna disposizione di legge a provare la verità del fatto denunciato.

Il procuratore della Repubblica presso la pretura circondariale ricorre per cassazione e deduce violazione di legge sostenendo - per un primo profilo e sulla base di un unico precedente (citato) di questa Corte - la configurabilità del reato ed osservando - per un secondo profilo - che, in ogni caso, il giudice avrebbe potuto, in forza dell'art. 521 c.p.p., dare una diversa qualificazione giuridica al fatto reato - ravvisando in esso, a titolo di esempio, il delitto di calunnia - ed agendo di conseguenza secondo le prescrizioni del codice di rito.

La quinta sezione penale di questa Corte, assegnataria del ricorso ratione materiae - ponendosi in consapevole contrasto con la sentenza delle sezioni unite n. 6 del 31 marzo 1999, ric. Lucarotti ed uniformandosi ad altra della stessa sezione, pure successiva ed in contrasto col citato arresto delle sez. un. (Cass., sez. V, sent. n. 1323 del 16 giugno 1999, Monti) - ha, con ordinanza resa in data 20 settembre 1999, rilevato il perdurante contrasto e rimesso gli atti alle sezioni unite richiedendone un nuovo intervento alla luce delle argomentazioni svolte e di quelle riportate nella sentenza Monti.

La sezione rimettente ha contestato, come frutto operazione surretizia ed arbitrariamente additiva, non giustificata dalla lettera e dalla ratio della norma, la pretesa destinazione normativa dell'atto a provare la verità assunta nella sentenza Lucarotti; ha valorizzato sia la possibilità della destinazione soggettiva del documento riportante la denuncia come atto diretto a provare la verità del fatto; ha dato rilievo, quindi, alla sufficienza della concreta utilizzabilità probatoria della falsa attestazione ai fini del «fermo» dell'assegno e delle garanzie offerte al cittadino almeno rispetto all'impulso verso le ricerche ed al blocco della somma rappresentata dal titolo; ha, altresì, fatto perno sul dovere di verità derivante dalla scelta del possessore del titolo di denunciarne lo smarrimento e dall'obbligo per la polizia giudiziaria di ricevere la denuncia attivando successivamente i propri compiti di polizia preventiva. In definitiva, il collegio remittente ha ritenuto che l'atto pubblico, nel quale è trasfusa la dichiarazione di verità del privato, è destinato - per sua natura e per la rilevanza che esso assume nei rapporti inter homines - a svolgere una funzione probatoria sicché il mendacio costituisce lesione del bene della fede pubblica, stante la generale aspettativa di conformità del contenuto dell'atto medesimo al vero, ed è idoneo a configurare il reato di cui all'art. 483 c.p., senza che, peraltro, possa rilevare l'elemento negativo e «pregiuridico», del tutto estraneo alla fattispecie tipica, dell'omessa denunzia del privato alla banca trattaria, prevista dalla speciale procedura di ammortamento.

Il primo presidente della Corte ha assegnato il ricorso alla sezione unite fissando l'udienza odierna per la deliberazione dello stesso in camera di consiglio.

Il procuratore generale presso questa Corte, in persona dell'avvocato generale, ha chiesto, con requisitoria scritta, il rigetto del ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE. 1. - I termini del contrasto risultano dalla stessa ordinanza di rimessione e dalla sentenza di queste sezioni unite del 17 febbraio 1999, Lucarotti. In esso, in buona sostanza, si contrappongono, rispettivamente, gli assunti della teoria «sostanzialistica», recepita nei termini anzidetti dall'ordinanza di rimessione e dalla sentenza della quinta sezione Monti, che ha riproposto il contrasto, e di quella più restrittiva o «formale», accolta dalla sentenza delle sezioni unite Lucarotti, secondo cui la destinazione dell'atto a provare la verità dei fatti attestati dal privatoPage 326 deve risultare, esplicitamente o implicitamente, da una specifica previsione normativa.

  1. - Le sezioni unite ritengono di dover ribadire l'indirizzo accolto nella sentenza Lucarotti.

    Questa, pur nella essenzialità della sua argomentazione, ha il pregio di aver rispettato il testo legislativo valorizzandone innanzitutto la sua portata di linguaggio tecnico e ha dato al termine «provare» (o «prova») cui la norma fa riferimento il suo corretto significato, presumendolo usato dal legislatore in maniera appropriata e non già in conformità del linguaggio parlato o del valore che esso assume nella prassi o nel variegato contesto delle relazioni umane.

    Ma la essenzialità del percorso argomentativo della cennata sentenza non intacca la correttezza della conclusione raggiunta né dà (nuovo) vigore all'opzione esegetica contraria, delle cui principali obiezioni converrà, in questa sede, farsi carico.

  2. - L'idagine esegetica sul testo normativo richiederà che si dia innanzitutto senso ai termini usati dal legislatore utilizzando, ove occorra, le indicazioni provenienti da altri rami dell'ordinamento e dalla corretta individuazione del bene giuridico tutelato per approdare, così, alla ricostruzione di un modello legale il più possibile preciso e non variabile ad arbitrio dell'interprete, nel rispetto dei principi costituzionali di legalità (cfr. infra sub 7) e di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali (Corte cost., sent. n. 34 del 6-13 febbraio 1993).

    L'art. 483 c.p. punisce la falsa attestazione di un fatto «di cui l'atto è destinato a provare la verità» ond'è che non può prescindersi dal significato dei termini «prova» e «documento-prova del fatto documentato» e dal collegamento che la norma stessa pone tra il falso e la prova.

    Il concetto di prova che deve accogliersi è quello di fatto, segno o mezzo rappresentativo, veicolo di conoscenza della proposizione fattuale da sottoporre a controllo giudiziale (il quid probandum, ignoto). E sulla base di questa funzione della prova non vi è dubbio che il verbale di denuncia di smarrimento poiché non documenta il fatto dello smarrimento, designa unicamente - e prova - la dichiarazione con cui il denunciante rende noto al verbalizzante il verificarsi di quel fatto. Il documento enuncia e rappresenta il racconto del dichiarante senza rapportarsi al fatto dichiarato rispetto al quale costituisce una rappresentazione, per così dire, di secondo grado e, quindi, non la prova di esso, qualunque sia il valore che poi la prassi burocratica o contrattuale assegnano alla denuncia, come presupposto per «mettere in moto» attività successive (Cass., sez. V, n. 1323/99, Monti). Ed, invero, né la prassi successiva alla denuncia né la potenzialità di «messa in moto» hanno a che vedere con il concetto di prova del fatto (smarrimento) atteso che, dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico, non esiste differenza (di efficacia probatoria) tra la denunzia di smarrimento e la dichiarazione di smarrimento altrimenti resa, nel caso di assegni, alla banca o a quant'altri (con una lettera raccomandata, un fax o anche soltanto oralmente). Il fatto dichiarato dal portatore del titolo non diventa più o meno vero - o storicamente certo, nel senso di adprobatum - a seconda che sia stato denunciato alla P.G. ovvero altrimenti rappresentato: il valore probatorio sarà sempre e solo quello assegnato alla dichiarazione proveniente dall'interessato, anch'essa intesa - se si vuole - come dato rappresentativo il cui valore, però, non sarà tecnicamente accresciuto dalla circostanza che essa è stata ricevuta da un pubblico ufficiale al cui atto verrà attribuita fede (privilegiata) solo in relazione alle circostanze che la dichirazione è stata resa con quelle forme, in quei tempi e con quelle modalità e che essa...

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