Giurisprudenza di legittimità

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine575-600

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. VI, 19 aprile 2000, n. 4881 (ud. 24 febbraio 2000). Pres. D'Asaro - Est. Cortese - P.M. Galasso (parz. diff.) - Ric. Genazzani.

Abuso d'ufficio - Altrui danno ingiusto - Esercizio di attività illegittima - Lesione dell'interesse al bene della vita - Interesse rilevante per l'ordinamento a cui l'interesse legittimo si collega - Configurabilità del reato - Sussistenza - Fattispecie.

Alla luce del recente orientamento giurisprudenziale espresso dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione (sent. n. 500 del 22 luglio 1999) secondo cui deve riconoscersi all'art. 2043 c.c. il rango non più di norma secondaria, volta a sanzionare con l'obbligo del risarcimento una condotta vietata da altre norme, sibbene di norma primaria, volta a garantire la riparazione di qualsivoglia danno ingiusto, identificabile nella lesione, non giustificata da altre norme, di un interesse rilevante per l'ordinamento, deve ritenersi configurabile il reato di abuso di ufficio, sotto il profilo della produzione a taluno di un danno ingiusto, ogni qual volta il soggetto che esplica una funzione o un servizio pubblico abbia posto in essere un'attività da riguardarsi come illegittima dalla quale sia derivata non la lesione di un interesse legittimo in sè considerato, ma la lesione dell'interesse al bene della vita che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento ed al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, si collega. (Nella specie, in applicazione di tali principi, è stato ritenuto che desse luogo alla configurabilità del reato in questione il comportamento del titolare di una cattedra universitaria di medicina il quale, ledendo il risarcibile interesse sostanziale di un professore associato ad una compiuta estrinsecazione della propria professionalità, cui si collegava l'interesse legittimo, in base alla normativa vigente, ad essere assegnato all'espletamento di determinate mansioni comprendenti l'attività di sala operatoria, lo aveva escluso da detta attività). (Mass. redaz.). (C.p., art. 323) (1).

    (1) Significativa pronuncia della S.C. che si collega alla recente evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcibilità del danno conseguente alla violazione degli interessi legittimi espressa da Cass. civ., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, pubblicata in Arch. civ. 1999, 1107. Cfr. le richiamate sentenze Cass. pen., sez. VI, 5 maggio 1999, Chirico, in questa Rivista 1999, 71; Cass. pen., sez. VI, 23 novembre 1998, Di Simone, ivi 1999, 51; Cass. pen., sez. VI, 15 maggio 1998, Mannucci, ivi 1998, 779 e Cass. pen., sez. II, 22 gennaio 1998, Tosches, ivi 1998, 795.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con sentenza del 17 settembre 1999 la Corte d'appello di Bologna confermava la condanna di Genazzani Andrea alla pena di mesi 4 di reclusione - oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile - per il delitto ex art. 323 c.p., perché, quale direttore della Clinica di Ostetricia e Ginecologia della Facoltà di Medicina dell'Università degli Studi di Modena, recava, con abuso dell'ufficio, un danno ingiusto a Masellis Giuseppe, professore associato di clinica ostetricia e ginecologica della detta Università, escludendolo dall'attività di sala operatoria, indispensabile per la sua professionalità.

Propone ricorso il prevenuto, deducendo, col primo motivo, la violazione dell'art. 323 c.p., nella nuova formulazione conseguente alla legge 16 luglio 1997, n. 234.

Secondo la stessa motivazione della Corte territoriale, invero - sottolinea il ricorrente - nella specie non è ravvisabile la violazione di una specifica norma di legge, bensì solo l'esercizio del potere per un fine diverso da quello voluto dalla legge, e cioè la principale forma del vizio di eccesso di potere, non più rientrante, giusta la dominante giurisprudenza di legittimità, nell'area di previsione del nuovo reato di abuso d'ufficio. Il requisito della «violazione di norme di legge o di regolamento», introdotto dalla novella del 1997, andrebbe infatti necessariamente inteso, secondo la voluntas legis e la perseguita finalità di più concreta determinazione della fattispecie criminosa, con riferimento a disposizioni sostanziali a contenuto precettivo, con esclusione quindi delle norme meramente procedimentali e delle norme di puro principio (o riproduttive di queste), quale in particolare quella di cui all'art. 97 Cost. sul buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.

Con secondo motivo il ricorrente lamenta la contraddizione fra la ritenuta responsabilità per abuso in danno e l'applicazione della sanzione prevista per l'abuso ai fini di vantaggio patrimoniale.

Con il terzo e quarto motivo si denuncia il vizio di motivazione sulla sussistenza dell'elemento oggettivo e soggettivo del reato, in relazione all'omessa spiegazione della ritenuta inattendibilità delle numerose testimonianze favorevoli al prevenuto e all'omessa considerazione della oggettiva falsità del certificato della Direzione sanitaria dell'Azienda Ospedaliera di Modena, prodotto dal Masellis in occasione della deposizione resa come denunciante e teste innanzi al Tribunale di Modena.

Col quinto ed ultimo motivo si lamenta (in correlazione al suesposto secondo motivo) l'erroneo riferimento, per la determinazione della pena per l'abuso in danno, alla nuova anziché alla (più favorevole) vecchia formulazione dell'art. 323 c.p.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - Con riferimento al primo motivo di ricorso, deve indubbiamente riconoscersi che con la nuova formulazione dell'art. 323 c.p. e, in particolare, con l'introduzione dell'inciso «in violazione di norme di legge o di regolamento», il legislatore, nell'intento di dare maggiore concretezza alla fattispecie delittuosa e di evitare eccessive incursioni giurisdizionali negli ambiti operativo-decisionali della pubblica amministrazione, ha voluto escludere dall'area della sanzionabilità penale le condotte dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio poste in essere senza un formale contrasto con positive disposizioni di normazione primaria o secondaria. L'obiettivo precipuo, che si coglie in maniera non equivoca dai lavori preparatori della L. 234/97, era di sottrarre all'intervento penale i comportamenti affetti solo dal vizio dell'eccesso di potere, per i qualiPage 576 più alti apparivano i cennati rischi di indeterminatezza previsionale e (correlativa) impropria invadenza giudiziaria.

Sotto tale profilo non appare condivisibile l'arresto di questa Corte (sent. 9 febbraio 1998, Mannucci), richiamato dalla impugnata sentenza, nel quale si recupera all'ambito di applicabilità della nuova figura dell'abuso d'ufficio anche lo sviamento di potere quale forma di esercizio del potere esulante dalla funzione perseguita dalla legge con il suo conferimento.

Ciò chiarito, non può peraltro, sul versante opposto, ritenersi giustificata dal tenore letterale e dalla ratio della nuova previsione codicistica, la delimitazione delle norme la cui violazione sia rilevante agli effetti della medesima alle sole norme che vietino puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio (come affermato da Cass. 4 dicembre 1997, Tosches).

Non può, infatti, dubitarsi che la produzione, da parte di tali soggetti, di un ingiusto vantaggio patrimoniale o di un danno ingiusto possa causalmente correlarsi anche alla violazione di norme di natura procedimentale atte a incidere sull'esito finale dell'attività amministrativa (in tal senso v. Cass. 30 settembre 1998, De Simone; 27 settembre 1999, Criscuolo).

Si esclude però comunemente che possano venire in rilievo, ai fini di cui si discute, norme puramente programmatiche, quale quella prevista dall'art. 97 Cost. o altre di analogo contenuto (in tal senso, fra le altre, Cass. 11 febbraio 1999, Chirico).

Se tale assunto deve generalmente essere condiviso, perché coerente con le surriferite finalità perseguite dal legislatore novellante, la problematica ad esso sottesa merita approfondimento con riguardo alla particolare ipotesi dell'abuso «in danno», e ciò alla luce della recente evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcibilità (del danno conseguente alla violazione) degli interessi legittimi.

Com'è noto, le Sezioni unite civili di questa Corte, con la sentenza n. 500 del 22 luglio 1999, ribaltando un orientamento consolidato da decenni, hanno ricostruito la norma dell'art. 2043 c.c. in termini, non più (come in passato) di norma secondaria volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì di norma primaria volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività altrui. In tale ottica l'ingiustizia del danno è correlata solo al presupposto che esso sia arrecato non iure, e cioè attraverso la lesione, non giustificata da altra norma, di un interesse rilevante per l'ordinamento. Tale interesse va riconosciuto attraverso la comparazione fra lo stesso e quello perseguito dall'autore del fatto lesivo. Nel caso del conflitto fra interesse individuale perseguito dal privato e interesse sovraindividuale perseguito dalla pubblica amministrazione, quest'ultimo prevale, con sacrificio del primo, solo se l'azione amministrativa è legittima. In caso contrario, quando l'attività illegittima abbia determinato la lesione (non dell'interesse legittimo in sè considerato bensì) dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento, il danno in tal guisa causato è risarcibile.

Il comportamento del soggetto esplicante una funzione o servizi pubblici, che causi un danno nei termini suddescritti, ricade dunque nell'ambito operativo della norma primaria di cui all'art. 2043 c.c. Ora questa, letta in congiunzione con le specifiche previsioni inerenti all'interesse...

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