Giurisprudenza di legittimità

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine439-466

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. V, 13 marzo 2001, n. 10337 (ud. 21 dicembre 2000). Pres. Marrone - Est. Providenti - P.M. Favalli (conf.) - Ric. Chiavegatti ed altro.

Stampa - Diffamazione commessa col mezzo della stampa - Diritto di cronaca - Condizioni - Rispondenza dell'articolo ad un comunicato degli organi di P.G. - Sufficienza.

Non esula dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca, e non può quindi dar luogo a giudizio di responsabilità per il reato di diffamazione, la condotta di un giornalista il quale, in un articolo di cronaca, abbia definito come «santone» dedito a «fatture di maledizione» un soggetto al quale, in un comunicato degli organi di polizia in cui si dava notizia, tra l'altro, del suo avvenuto arresto, nell'ambito di indagini volte a contrastare fenomeni di sfruttamento della prostituzione di donne provenienti dalla Nigeria, veniva attribuita l'effettuazione di rituali magici finalizzati a far credere alle suddette donne che esse sarebbero state esposte alla «vendetta degli spiriti» in caso di disobbedienza. (Mass. redaz.). (C.p., art. 595; c.p., art. 51) (1).

    (1) In merito alle condizioni di efficacia della scriminante del diritto di cronaca, si vedano, ex plurimis, Cass. pen., sez. V, 22 maggio 2000, Panigutti, in questa Rivista 2000, 1086; Cass. pen., sez. V, 22 aprile 1999, Simeoni, ivi 1999, 553; Cass. pen., sez. V, 7 luglio 1998, Calamita, ivi 1999, 222 e Cass. pen., sez. V, 27 maggio 1981, Gravato, ivi 1981, 843. In dottrina, v. A. SCHERMI, Sui limiti del diritto di cronaca, in Giust. civ. 1994, I, 1416 e M. BARBA, Esercizio del diritto di cronaca e diffamazione a mezzo stampa, in Giur. it. 1988, II, 383.


(Omissis). MOTIVI DELLA DECISIONE. - Con sentenza del 14 gennaio 2000 la Corte d'appello di Roma confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Roma il 4 giugno 1998, con la quale Chiavegatti Enrico ed Anselmi Giulio erano stati condannati, rispettivamente alle pene di lire 1.200.000 di multa il Chiavegatti, e di lire 800.000 di multa l'Anselmi per il reato di diffamazione a mezzo stampa, in danno di Michael Tunde Obudanjo, per averne offeso la reputazione ed il decoro in un articolo, definendolo il santone di Senigallia ed attribuendogli comportamenti rituali al fine specifico di creare una «fattura di maledizione», ed incutere timore nelle donne nigeriane adibite alla prostituzione, ed assicurarne l'obbedienza.

Proponevano ricorso gli imputati sostenendo di aver esercitato il diritto di cronaca, per aver ripreso la notizia da un comunicato stampa diramato dalla polizia a seguito di una operazione volta a colpire lo sfruttamento di donne nigeriane, nel corso della quale era stato arrestato anche l'Odubanjo.

Aggiungevano di non aver indicato il nome del santone, indicandolo soltanto con il soprannome. Dopo il giudizio di appello e prima di quello di legittimità è stata rimessa la querela.

La prima censura è fondata.

Il diritto di cronaca invocato dai ricorrenti, costituisce l'essenza della funzione dell'informazione nel sistema costituzionale vigente. Affinché i cittadini siano informati di tutti gli avvenimenti aventi rilevanza generale, è necessario che la stampa possa operare liberamente, e che quindi, possa pubblicare anche notizie che riferiscono comportamenti, antigiuridici o moralmente o socialmente riprovevoli. In questi casi il diritto di informare assume un valore particolare, tanto da prevalere sulla tutela del diritto soggettivo all'onore, al prestigio ed alla reputazione dell'autore del fatto riferito. La prevalenza è però limitata all'interno dell'osservanza del diritto di cronaca, che comporta una rigida corrispondenza fra i fatti verificatisi e la notizia riferita. È compito del giudice verificare la veridicità della notizia, al fine di accertare la possibilità di ritenere l'esistenza della causa di giustificazione prevista dall'articolo 51 del c.p. e fondata sull'esercizio del diritto garantito dall'articolo 21 della Costituzione.

L'esimente comporta però che il giornalista abbia riferito una notizia di pubblico interesse, realmente verificatasi, in modo obiettivo, e non tendenzioso (Cass., sez. V, 4 gennaio 2000, n. 3287).

Il fatto oggetto dell'attuale procedimento interessava certamente la collettività, per l'originalità di alcuni aspetti del comportamento antigiuridico, consistenti, nel fatto che l'associazione criminale che gestiva la prostituzione di molte donne nigeriane, provvedeva a sottoporle ad «un rituale magico». La notizia era stata comunicata alla stampa dalla polizia inquirente che in un comunicato aveva precisato: «il rituale magico veniva compiuto attraverso la ritenzione di peli e di capelli recisi, nonché di unghie tagliate, il tutto conservato in un involucro reso individuo dall'apposizione del nome della vittima e dei familiari, munito della vendetta degli spiriti, nel caso di obblighi non onorati, e quindi dall'affidamento riposto nel sicuro timore derivante alle obbligate da credenze e superstizioni proprie della loro cultura». Nello stesso comunicato si dava notizia dell'arresto di varie persone fra le quali una «madama» e Michael Tunde Odubanjo detto il «Santone di Senigallia».

I fatti esposti, godevano di sicura credibilità, in ordine alle notizie ufficialmente diramate, perché provenivano dagli inquirenti che avevano effettuato gli accertamenti. Ed, i riti magici attribuiti all'intera organizzazione, assumevano particolare rilevanza per il Santone di Senigallia, ovviamente esperto per la sua professione di «mago». I giornalisti si sono quindi mantenuti all'interno della notizia, attribuendo al «mago» coinvolto, perché arrestato, il solo compito che poteva essergli logicamente attribuito. Così operando hanno fatto buon uso del diritto di correttamente ed obiettivamente informare i cittadini di una notizia rilevante per la sua originale malvagità.

Ne deriva che, a norma del secondo comma dell'art. 129 c.p., anche se le parti hanno nelle more del giudizio di legittimità rimesso la querela, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, per aver gli imputati agito nell'adempimento del diritto di cronaca previsto dall'esimente di cui all'articolo 51 c.p., e quindi vanno assolti perché il fatto non costituisce reato (Omissis).

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. V, 13 marzo 2001, n. 10311 (ud. 6 dicembre 2000). Pres. Marrone - Est. Calabrese - P.M. Cedrangolo (conf.) - Ric. Bali ed altro.

Schiavitù - Riduzione in schiavitù - Condizione analoga alla schiavitù - Extracomunitarie costrette ad esercitare la prostituzione - Configurabilità - Sussistenza.

Schiavitù - Riduzione in schiavitù - Condizione analoga alla schiavitù - Asserita violazione del principio di tassatività - Questione manifestamente infondata di legittimità costituzionale.

È configurabile una «condizione analoga alla schiavitù», penalmente sanzionabile ai sensi dell'art. 600 c.p., nel caso di donne di provenienza extracomunitaria, condotte in Italia e quivi costrette ad esercitare la prostituzione in regime di sistematica violenza e segregazione. (Mass. redaz.). (C.p., art. 600) (1).

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 600 c.p., nella parte in cui prevede come reato la riduzione di taluno in «condizione analoga alla schiavitù», sollevata in relazione agli artt. 3 e 25, comma secondo, della Costituzione, per asserita violazione del principio di tassatività in materia penale, sulla scorta della già ritenuta incostituzionalità dell'art. 603 c.p. che prevedeva il reato di plagio (sent. della Corte costituzionale n. 96 del 1981), dal momento che la «condizione analoga alla schiavitù», oltre a individuarsi nell'elenco di cui all'art. 1 della Convenzione di Ginevra 7 settembre 1956, resa esecutiva in Italia con legge 20 dicembre 1957 n. 1304, è stata anche ritenuta dalla stessa Corte costituzionale non assimilabile a quella già prevista dall'art. 603 c.p., dovendo essa essere interpretata «come condizione in cui sia socialmente possibile, per prassi, tradizione, circostanze ambientali, costringere una persona al proprio esclusivo servizio, laddove il plagio deve necessariamente ipotizzare anche una conculcazione dell'intimo volere». (Mass. redaz.). (C.p., art. 600) (2).

    (1) In aggiunta alle citate sentenze Cass. pen., sez. un., 16 gennaio 1997, Ceric, in questa Rivista 1997, 171 e Cass. pen., sez. V, 20 marzo 1990, Iret Elmar, ivi 1991, 106, si vedano, in merito alle condizioni che identificano una condizione analoga alla schiavitù, Cass. pen., sez. III, 24 settembre 1999, Catalini, ivi 2000, 426; Cass. pen., sez. III, 7 luglio 1998, Matarazzo, ivi 1999, 192; Cass. pen., sez. V, 11 febbraio 1998, Hrustic, ivi 1998, 732 e Cass. pen., sez. V, 24 gennaio 1996, Senka, ivi 1996, 1161. In dottrina, cfr. ROBERTO DI MARTINO, Servi sunt, immo homines. Schiavitù e condizione analoga nell'interpretazione di una corte di merito, in Foro it. 1994, II, 298.


    (2) Conf., sempre Cass. pen., sez. V, 20 marzo 1990, Iret Elmar, citata alla nota precedente. Si veda inoltre Corte cost. 8 giugno 1981, n. 96, in questa Rivista 1984, 10.


(Omissis). MOTIVI DELLA DECISIONE. - Con sentenza del 12 maggio 1999, pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, il Gip presso il Tribunale di Alba condannava, previa unificazione con il vincolo della continuazione dei reati loro rispettivamente ascritti, Bali Refat e Kuqja Andrea, di nazionalità albanese, per illeciti penali connessi alla prostituzione di donne condotte dalla Bulgaria in Italia, e precisamente per il delitto continuato di riduzione in schiavitù, violenza sessuale aggravata, lesioni volontarie personali, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, in concorso con altri albanesi, in danno delle cittadine bulgare Delianova Anelia e Hristova Zorka (in Alba, tra l'ottobre 1998 e il febbraio 1999).

Contro la sentenza d'appello, indicata in epigrafe, confermativa di quella precedente, hanno proposto ricorso gli imputati, con atto congiunto, deducendo...

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