Giurisprudenza di legittimità

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine305-351

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. trib., 7 maggio 2003, n. 6911. Pres. Saccucci - Est. Cicala - P.M. Cafiero (diff.) - Ministero delle Finanze (Avv. gen. Stato) c. Cereia Fuso.

Tributi erariali diretti - Imposta sul reddito delle persone fisiche - Base imponibile - Contratto di locazione - Dati relativi al canone contenuti nel contratto - Natura presuntiva - Prova contraria - Ammissibilità.

I dati relativi al canone contenuti nei contratti di locazione forniscono, ai fini delle imposte, solo una indicazione presuntiva, poiché - di consueto - i proprietari percepiscono il canone indicato nel contratto. Ma deve essere consentita la prova contaria, anche attraverso elementi indiziari quale la procedura di sfratto per morosità. (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 23) (1).

    (1) Importante sentenza, che ha avuto vasta eco anche sulla stampa di informazione. Riferendosi a periodo privo dell'odierna specifica - sia pure limitata all'uso abitativo - previsione di legge (art. 8, comma 5, L. 9 dicembre 1998 n. 431), essa afferma un principio di carattere generale che, assolutamente rispettoso del dettato costituzionale, deve senz'altro essere condiviso e che, se confermato, supera all'evidenza lo stesso dato normativo. Della materia, come è noto, si è occupata anche la Corte costituzionale che - adita su ricorso promosso dalla Confedilizia - ha affermato nella sua sentenza 26 giugno 2000 n. 362 (in questa Rivista 2000, 864) il principio che non debbono essere corrisposte imposte per il periodo successivo alle risoluzioni dei contratti di locazione (sia ad uso abitativo che ad uso diverso), ottenibili anche con la dichiarazione ex art. 1456 c.c. e con la diffida ex art. 1454 stesso codice. Le massime delle sentenze delle Sezioni Unite 6 dicembre 2002 n. 17394 e 25 ottobre 2002 n. 15063, citate in motivazione, sono leggibili in CED Arch. civ., RV 559050 e 558050. Quanto alla possibilità di ottenere, da parte dei contribuenti interessati, il rimborso delle somme eventualmente corrisposte in più del dovuto, la Confedilizia ha diramato istruzioni in merito alle proprie Associazioni territoriali, allegando anche il modello dell'apposita istanza da presentare agli Uffici delle entrate.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - L'amministrazione delle finanze ricorre per cassazione deducendo un unico motivo avverso la sentenza n. 274/15/97 del 16 luglio 1997 con cui la Commissione tributaria regionale per il Piemonte, confermando la pronuncia di primo grado, ha ritenuto che nell'imponibile ai fini Irpef ed Ilor del sig. Diego Cereia Fuso per l'anno 1986 dovesse essere iscritta la rendita catastale di fabbricati di sua pertinenza e non i canoni indicati nei contratti di locazione, dal momento che tali canoni risultavano non versati dall'inquilino.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - L'amministrazione deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 35, secondo comma D.P.R. n. 597/1973. Difetto di motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Richiama la tesi già sostenuta in sede di merito dall'Ufficio secondo la quale, alla stregua dell'art. 35 D.P.R. n. 597/1973 (ora art. 35 del D.P.R. 917/1986), il reddito imponibile degli immobili locati è quello risultante dal contratto di locazione, senza che a nulla rilevi la concreta percezione dei canoni.

L'amministrazione si appella alla lettera del secondo comma del citato art. 35, che recita: «Il reddito lordo effettivo è costituito dai canoni di locazione risultanti dai relativi contratti; in mancanza di questi, è determinato comparativamente ai canoni di locazione di unità immobiliari aventi caratteristiche similari e ubicate nello stesso fabbricato o in fabbricati viciniori». E dalla norma deduce che sia irrilevante se «i canoni di locazione risultanti dai relativi contratti» siano stati o meno versati al contribuente.

Il collegio ritiene di non aderire alla impostazione proposta dal fisco, e di collocarsi invece nel filone giurisprudenziale divenuto ormai prevalente con le pronunce delle Sezioni Unite n. 17394 del 6 dicembre 2002 e n. 15063 del 25 ottobre 2002.

Questo filone giurisprudenziale assume a solido fondamento l'art. 53 della Costituzione secondo cui il carico fiscale deve essere raggugliato alla «capacità contributiva», cioè alla effettiva ricchezza a disposizione del contribuente. Non è quindi consentito - ad esempio - tassare quelle ricchezze che siano state erroneamente indicate in una denuncia, ma che non siano possedute dal soggetto passivo della imposta.

L'indicazione costituzionale è poi stata recepita e rafforzata dallo «statuto dei diritti del contribuente» approvato con legge 27 luglio 2000, n. 212, in particolare laddove ha sancito il principio di buona fede che, ad avviso del collegio, impone alla amministrazione di far riferimento a dati di ricchezza reali.

I criteri della capacità contributiva e della buona fede sono suscettibili di molteplici implicazioni. Ed anche nel caso di specie, offrono un solido criterio nella interpretazione di una legge che ben può essere intesa in conformità a tali principi.

Invero il citato art. 35 riguarda i criteri applicabili nella revisione della rendita catastale, e solo per analogia viene dal fisco invocato anche in un caso di tassazione ai fini Irpef del reddito effettivo di un immobile.

La rendita catastale è però, per definizione, una rendita potenziale e non una rendita effettiva, tant'è vero che può essere ridotta ove l'immobile non sia in concreto locato; e sempre collocandosi sul piano della potenzialità l'art. 23 del D.P.R. 917/1986 utilizza le parole «indipendentemente dalla percezione».

Ipotesi diversa si realizza quando la tassazione viene compiuta non sulla base della rendita catastale (accresciuta o ridotta secondo parametri indicati dalla legge), bensì in base al reddito specifico derivante da un singolo contratto ed in questo caso la legge 23 febbraio 1960, n. 131 (cui rin-Page 306viava l'art. 88 del D.P.R. 597/1973) parlava di «reddito lordo effettivo delle unità immobiliari».

Dunque nel caso in cui non si debba far ricorso alla rendita catastale (come vorrebbe la amministrazione), i dati contrattuali forniscono solo una indicazione presuntiva, poiché - di consueto - i proprietari percepiscono il canone indicato nel contratto. Ma deve essere consentita la prova contraria, così come nel caso di specie avvenuto attraverso elementi indiziari (quale la procedura di sfratto per morosità) che il giudice di merito ha con insindacabile e non contestato giudizio ritenuto congrui.

Il ricorso deve essere quindi rigettato.

Non vi è luogo a provvedere per le spese. (Omissis).

@CORTE DI CASSAZIONE Sez. V, 27 febbraio 2003, n. 2981. Pres. Saccucci - Est. Magno - P.M. Velardi (conf.) - Ministero delle Finanze (Avv. gen. Stato) c. Falanga (n.c.).

Tributi (in generale) - Esenzioni ed agevolazioni (benefici) - Edilizia - Acquisto di immobili - Imposta di registroAgevolazioni prima casa - Cumulabilità dei benefici accordati in base alla stessa legge n. 118/85 - Esclusione - Principio della non cumulabilità di benefici interna alla stessa previsione legislativa - Normativa successiva in materia - Incidenza - Esclusione.

Gli atti d'acquisto di immobili ad uso abitativo compiuti e registrati nel vigore del decreto legge 7 febbraio 1985, n. 12, convertito in legge 5 aprile 1985, n. 118, non godono del cumulo di agevolazioni «interno», dipendente cioè dalla stessa legge, imponendo l'art. 2, secondo comma, all'acquirente di dichiarare, a pena di decadenza, «di non aver già usufruito delle agevolazioni previste» dalla stessa disposizione. In ordine a tale esclusione di cumulabilità «interna» di benefici non hanno innovato né l'art. 3, comma secondo, della legge 31 dicembre 1991, n. 415, che ha introdotto il divieto di cumulo fra i due precedenti ordini di agevolazione - quello dipendente dalla legge 22 aprile 1982, n. 168, e quello previsto dalla citata legge n. 118 del 1985 - né l'art. 7, comma nono e decimo, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, il quale ha, a sua volta, consentito, per i rapporti tributari non ancora definiti, il cumulo fra le agevolazioni ottenibili in forza dei due suddetti sistemi normativi. (L. 22 aprile 1982, n. 168, art. 1; D.L. 7 febbraio 1985, n. 12, art. 2; L. 31 dicembre 1991, n. 415, art. 3; L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 7) (1).

    (1) Si vedano Cass. 3 maggio 2000, n. 5559, in questa Rivista 2000, 728 e Cass. 29 aprile 1999, n. 4309, in Arch. civ. 2000, 255.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Falanga Elena Pina Maria, con ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Pisa, impugnava l'avviso di liquidazione notificatole il 27 gennaio 1995, con cui l'ufficio del registro della stessa città le richiedeva il pagamento dell'imposta nella misura normale e relativi accessori, con riferimento al contratto di compravendita registrato in Pisa il 31 dicembre 1991, al n. 3150, essendo la contribuente decaduta dai benefici fiscali concessi dal D.L. 7 febbraio 1985, n. 12, convertito con modificazioni nella legge 5 aprile 1985, n. 118 (Misure finanziarie in favore delle aree ad alta tensione abitativa) per averne già goduto in relazione a precedente acquisto effettuato il 29 ottobre 1985, registrato al n. 5657.

Sosteneva la contribuente che l'agevolazione fiscale le era dovuta, in virtù della più recente normativa (articolo 1, secondo e terzo comma, D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito con modificazioni nella legge 24 marzo 1993, n. 75), che consentirebbe di fruire delle riduzioni d'imposta per l'acquisto della prima casa anche a chi ne avesse già goduto in base alle leggi precedenti (articolo 1, legge 22 aprile 1982, n. 168).

Il ricorso - cui si opponeva l'ufficio, deducendo l'inapplicabilità del D.L. n. 16/1993, sia perché entrato in vigore dopo l'avvenuta registrazione dell'atto sia perché non autorizzava la reiterazione dell'agevolazione in base alla stessa legge n. 118/1985 (c.d. reiterazione «interna») - veniva accolto dalla commissione tributaria provinciale, con sentenza n. 121...

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