Giurisprudenza di legittimità

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine255-343

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. II, 14 marzo 2002, n. 10795 (c.c. 25 gennaio 2002). Pres. Varola - Est. Fumu - P.M. (diff.) - Ric. P.G. in proc. Ambrosino.

Esecuzione in materia penale - Pene detentive - Divieto di sospensione nel caso di condanna per delitti di cui all'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario - Ambito di applicazione.

Il divieto di sospensione dell'esecuzione della pena, stabilito dall'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. nel caso di condanna per taluno dei delitti di cui all'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario, opera anche nell'ipotesi, prevista dal successivo comma 10, in cui trattasi di condannato che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovi agli arresti domiciliari. (Mass. Redaz.). (C.p.p., art. 656) (1).

    (1) Giurisprudenza costante. Si veda, per tutte, Cass. pen., sez. II, 11 ottobre 2001, Maglione, in questa Rivista 2002, 63, nonché le altre sentenze citate in motivazione.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - Il procuratore generale presso la Corte di appello di Firenze ricorre avverso l'ordinanza della medesima Corte la quale, in veste di giudice dell'esecuzione, ha sospeso l'esecuzione dell'ordine di carcerazione nei confronti di Ambrosino Nicola, condannato per rapina aggravata, ai sensi dell'art. 656, comma 10, c.p.p.; ha rilevato la predetta Corte che il presupposto della domanda dell'interessato fosse lo stato di restrizione agli arresti domiciliari in ordine ai fatti oggetto della sentenza da eseguire, sicché non poteva operare la preclusione alla sospensione dell'esecuzione prevista, per i delitti di cui all'art. 4 bis ord. pen., dal comma 9 dell'art. 656 c.p.p.

Con l'atto di impugnazione la parte pubblica denuncia violazione di legge per avere il provvedimento impugnato ritenuto inapplicabile la preclusione alla sospensione prevista dal comma 9 dell'art. 656 c.p.p. nel caso, disciplinato dal successivo comma 10, che il condannato nei cui confronti si deve provvedere all'esecuzione si trovi agli arresti domiciliari.

Il ricorso è fondato.

Osserva il collegio come, alla stregua di quanto già affermato dalle Sezioni Unite penali nella sentenza del 13 luglio 1998, ric. P.M. in proc. Griffa, RV 211467 e ribadito da diverse successive decisioni di legittimità, anche di questa sezione (sez. I, 23 giugno 2000 n. 4591, Mele; sez. II, 9 marzo 2001, Di Salvatore, RV 219611; sez. II, 20 settembre 2001, Maglione, RV 219612), debbasi ritenere che la sospensione dell'ordine di carcerazione prevista dal comma 10 dell'art. 656 c.p.p. (la cui modifica ad opera del D.L. n. 341/2000, convertito con mod. dalla L. n. 4/2001, qui non rileva) in favore del condannato che sia ristretto agli arresti domiciliari al momento del passaggio in giudicato della sentenza, non possa operare quando la condanna riguardi i reati, come quello in oggetto, previsti dal comma 9, lett. a) della medesima disposizione.

Inducono a tali conclusioni argomentazioni testuali e logiche.

Osserva il collegio innanzi tutto come la sospensione automatica dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione prevista dal comma 10 dell'art. 656 c.p.p. in favore del condannato che si trovi agli arresti domiciliari costituisca un genus della più ampia species rappresentata dalla sospensione, anch'essa automatica, disciplinata in via generale dal precedente comma 5 (espressamente richiamato quanto ai presupposti di fatto di operatività dell'istituto), rispondendo alla medesima esigenza di evitare l'ingresso nel circuito carcerario, potenzialmente ostativo alle possibilità di emenda, di soggetti che, dovendo espiare pene o residui di pena in limiti non rilevanti, più facilmente possono essere reinseriti nel tessuto sociale attraverso misure alternative alla detenzione; e che detta sospensione si caratterizzi rispetto a quella generale per la particolarità che la legge, evidentemente allo scopo di agevolare colui che, essendo pur sempre ristretto, ha minori possibilità di tutelare i propri interessi, prescrive che sia direttamente il pubblico ministero a trasmettere senza ritardo gli atti al tribunale di sorveglianza per l'eventuale applicazione di un beneficio, a prescindere dalla tempestiva richiesta dell'interessato.

Da tale identità di finalità e struttura deriva che i limiti posti dal comma 9 dell'art. 656 c.p.p. alla operatività della sospensione prevista dal comma 5 per la presunzione di pericolosità insita nella condanna definitiva pronunciata per i gravi reati elencati nell'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario, rilevano globalmente e che, non essendo diversamente disposto, precludono anche la sospensione contemplata dal successivo comma 10.

Né può sottacersi l'effetto discriminatorio che dall'opposta soluzione deriverebbe per i condannati per reati ostativi provenienti dalla libertà, nei cui confronti l'ordine di carcerazione deve essere immediatamente eseguito, in assenza di apprezzabili ragioni giustificatrici di siffatta disparità di trattamento.

Non ignora la Corte che questa sezione in diversa occasione si è pronunciata in senso contrario (sez. II, 18 gennaio 2000, P.M. in proc. Fort, RV 215557), affermando che nell'ipotesi di condannato che si trovi agli arresti domiciliari per un reato di cui all'art. 4 bis ord. pen. si è già avuta una valutazione del giudice di cognizione che ha ritenuto la detenzione domiciliare, compatibile con la particolarità del soggetto e con le esigenze cautelari previste dall'art. 274 c.p.p., sicché tale favorevole esito non consente un aggravamento dello stato del condannato prima che sia intervenuta la decisione sulla concessione della misura alternativa; ma tale conclusione, ad avviso del collegio, «prova troppo», in quanto se è vero che l'applicazione degli arresti domiciliari è espressione di una valutazione (esplicita) di adeguatezza di tale tipo di coercizione «minore» con la pericolosità desumibile da una grave imputazione, a maggior ragionePage 256 dovrebbe valere ad escludere l'operatività della preclusione la valutazione (implicita) di assenza di pericolosità che è necessariamente immanente nello stato di libertà di un soggetto imputato (e condannato) per gli stessi gravi reati.

Il ricorso deve pertanto essere accolto, con conseguente annullamento con rinvio del provvedimento impugnato. Il giudice dell'esecuzione si adeguerà al su espresso principio di diritto. (Omissis).

@CORTE DI CASSAZIONE Sez. I, 12 marzo 2002, n. 10462 (c.c. 29 gennaio 2002). Pres. Sossi - Est. Fazzioli - P.G. (conf.) - Ric. Dedato.

Misure cautelari personali - Condizioni di applicabilità - Dichiarazioni di collaboratori di giustizia - Conservazione di efficacia delle dichiarazioni già assunte, ex art. 26 L. n. 63/2001 - Configurabilità.

In tema di «giusto processo», l'art. 26, comma 2, della legge 1 marzo 2001 n. 63, nel prevedere, per ragioni di politica criminale, la conservazione dell'efficacia delle dichiarazioni già assunte a condizione che il pubblico ministero provveda alla loro riassunzione, quando il procedimento «è ancora nella fase delle indagini preliminari», lascia per ciò stesso intendere che a tale incombente possa validamente darsi luogo anche nel caso in cui, all'atto dell'entrata in vigore della legge anzidetta, fossero già scaduti i termini di durata delle indagini preliminari, non operando, in tale evenienza, la causa di inutilizzabilità prevista dall'art. 407, comma 3, c.p.p. (Mass. Redaz.). (L. 1 marzo 2001, n. 63, art. 26) (1).

    (1) Per utili riferimenti in tema di dichiarazioni rese da soggetti informati sui fatti, si veda Cass. pen., sez. I, 12 luglio 2001, Caforio ed altri, in questa Rivista 2001, 604.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. 1. - Con ordinanza del 28 maggio 2001 il Gip del Tribunale di Catanzaro disponeva la custodia cautelare in carcere di Dedato Vincenzo quale indagato - come esecutore materiale - del triplice omicidio volontario di Leanza Giovanni, Bassano Lucio e Pagano Mario.

Tali fatti criminosi, secondo l'accusa, si inquadravano in un contesto di criminalità organizzata di tipo mafioso: due cosche mafiose locali, infatti, per dimostrare che tra loro era stato raggiunto un accordo che poneva fine ai numerosi omicidi consumati per ritorsione in danno l'una dell'altra, avrebbero commesso, di comune intesa, gli omicidi in questione essendo le vittime sospettate di avere ucciso due prossimi congiunti del capo di una delle cosche.

L'ordinanza veniva annullata dal Tribunale di Catanzaro che riteneva non utilizzabili le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia perché non rinnovate, come previsto dall'art. 26, comma 2, legge 1 marzo 2001, n. 63 con le modalità previste dal novellato art. 64 c.p.p.

Il P.M., dopo avere provveduto alla rinnovazione degli atti, chiedeva la emissione di nuova misura cautelare che veniva disposta dal Gip del Tribunale di Catanzaro.

A seguito di richiesta di riesame lo stesso tribunale con ordinanza del 1º agosto 2001 confermava la misura cautelare nei confronti di Dedato limitamente al solo omicidio del Leanza Giovanni, ritenendo che sussistevano gravi indizi di colpevolezza in particolare costituiti dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori, reciprocamente convergenti, dalle dichiarazioni di persone informate dei fatti e da «emergenze oggettive».

  1. - Con atto sottoscritto personlamente il Dedato ha proposto ricorso per cassazione, con il quale ribadisce sostanzialmente le censure di rito e di merito già proposte in sede di riesame, tutte rigettate dal tribunale.

    Deduce, in particolare, il ricorrente:

    1) la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. in relazione agli artt. 309, 311 e 649 stesso codice in quanto il Gip non avrebbe potuto emettere una nuova ordinanza di custodia cautelare.

    Essendo stata, infatti, la precedente ordinanza annullata per la inutilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboranti, il tribunale avrebbe dovuto ritenere, che tale ordinanza fosse stata annullata per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza con la...

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