Giurisprudenza di legittimità

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine175-227

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. I, 19 dicembre 2003, n. 48902 (ud. 29 ottobre 2003). Pres. Fabbri - Est. Dubolino - P.M. Febbraro (conf.) - Ric. Galli.

Vilipendio - Alla bandiera o altro emblema dello Stato - Vilipendio alla bandiera - Elemento oggettivo - Manifestazioni verbali di disprezzo - Configurabilità - Condizioni.

La bandiera nazionale è penalmente tutelata dall'art. 292 c.p. non come oggetto in sè (diversamente da quanto di verifica, ad esempio, con riguardo al vilipendio di tombe o di cadavere, per il quale si richiede quindi che la condotta vilipendiosa si concretizzi in atti di materiale manomissione del suo oggetto), ma unicamente per il suo valore simbolico, suscettibile, per sua natura, di essere leso anche da semplici manifestazioni verbali di disprezzo, la cui penale rilevanza, ai fini della configurabilità del reato, richiede quindi soltanto la percepibilità da parte di altri soggetti e non anche la presenza della res, da riguardarsi, in quanto tale, come del tutto indifferente. (C.p., art. 292) (1).

    (1) In materia, si rilevano due determinazioni dell'Uff. Indagini preliminari Milano, in data 25 maggio 2001, in Giur. merito 2002, 793, Gallo, secondo cui, in primo luogo, la fattispecie obiettiva del reato di cui all'art. 292 c.p. è descritta con un termine - il vilipendio - semanticamente ambiguo, sicché la sua interpretazione va condotta alla luce dei principi costituzionali, sopravvenuti alla sua introduzione. Una interpretazione costituzionalmente orientata porta a ritenere che il «vilipendio» punito dall'art. 292 c.p. è il comportamento gratuitamente offensivo, fine a sè stesso, esorbitante, dunque, dal legittimo esercizio della libertà di pensiero in quanto non funzionale alla manifestazione della critica politica. La condotta priva di questi requisiti non costituisce vilipendio, eventualmente giustificato attraverso il combinato disposto degli artt. 51 c.p. e 21 Cost., ma giace al di fuori della fattispecie legale così come reinterpretata alla luce delle norme costituzionali. In secondo luogo, nella stessa occasione, è stato stabilito che la distruzione di un drappo tricolore non è sufficiente ad integrare il reato di cui all'art. 292 c.p., qualora non avvenga per gratuito disprezzo del simbolo dello Stato, ma in un contesto di critica aspra nei confronti di decisioni adottate da parte di un organo statale.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Rilevato: - che con l'impugnata sentenza, in conferma di quella di primo grado pronunciata dal Tribunale di Cantù il 10 maggio 2002, Galli Stefano venne ritenuto responsabile del reato di vilipendio alle bandiere dello Stato (art. 292 c.p.) per avere, nel corso di una pubblica riunione di carattere politico, pronunciato la frase: «Da quando ho appeso il tricolore nel cesso non soffro più di stitichezza»;

- che, a sostegno di tale decisione, per quanto ancora d'interesse, la corte d'appello ritenne che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell'imputato, la configurabilità del reato non richieda la «presenza» della bandiera, dal momento che - si afferma - «quando si parla di "tricolore" non può sussistere alcun dubbio che ci si voglia riferire alla bandiera italiana ed alla sua specifica funzione di simbolo dello Stato e dell'unità nazionale»;

- che avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell'imputato, denunciando «violazione dell'art. 606 c.p.p. in relazione all'art. 42 c.p.», sull'assunto, in sintesi, che, non prevedendosi, nella norma incriminatrice (a differenza di quanto si prevede negli artt. 290 e 291 c.p.) che la condotta vilipendiosa abbia luogo «pubblicamente», dovrebbe da ciò desumersi che il legislatore, nel caso del vilipendio alla bandiera, abbia inteso attribuire rilievo determinante alla presenza di quest'ultima, mancando la quale il reato non sarebbe quindi configurabile.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - Considerato: - che, ad avviso del collegio, la mancata previsione, nell'art. 292 c.p., del requisito della pubblicità della condotta implica, all'evidenza, soltanto che il reato può essere commesso anche in ambito privato ma non anche che per la sua sussistenza sia richiesta la presenza fisica della bandiera, essendo quest'ultima tutelata non come oggetto in sè (diversamente da quanto si verifica, ad esempio, con riguardo al vilipendio di tombe o di cadavere, per il quale si richiede che la condotta penalmente rilevante si concretizzi in atti di materiale manomissione del suo oggetto), ma unicamente per il suo valore simbolico, suscettibile, per sua natura, di essere leso anche da semplici manifestazioni verbali di disprezzo, la cui penale rilevanza richiede quindi soltanto la percepibilità da parte di altri soggetti e non anche la presenza della res, da riguardarsi, in quanto tale, come del tutto indifferente;

- che pertanto il ricorso, siccome da ritenersi privo di giuridico fondamento, non può che essere rigettato, con le conseguenze di legge in ordine alle spese. (Omissis).

@CORTE DI CASSAZIONE Sez. I, 11 dicembre 2003, n. 47469 (ud. 17 ottobre 2003). Pres. Fabbri - Est. Bardovagni - P.M. (conf.) - Ric. D'Andrea.

Rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale - Rifiuto di esibizione di documento di identificazioneBene giuridico protetto - Individuazione - Imputabilità del reato - Procedimento penale a carico del reo - Costituzione di parte civile - Amministrazione di appartenenza del pubblico ufficiale - Legittimazione - Ammissibilità - Fattispecie.

In tema di rifiuto di generalità (art. 651 c.p.), atteso che il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è costituito dal potere-dovere di vigilanza attribuito dalla legge all'amministrazione di appartenenza del pubblico ufficiale al quale il rifiuto viene opposto, detta amministrazione è legittimata a costituirsi parte civile nel procedimento penale a carico del responsabile del reato onde ottenere il risar-Page 176cimento del danno da essa subito. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato di cui all'art. 651 c.p. configurato a carico di soggetto che aveva rifiutato di declinare le proprie generalità a guardie dell'ente Parco Nazionale d'Abruzzo, ha lasciato ferma la condanna dell'imputato al risarcimento del danno in favore del suddetto ente, costituitosi parte civile). (C.p., art. 651; c.p., art. 185) (1).

    (1) Non si riscontrano precedenti in ordine alla specifica questione sulla possibile legittimazione della P.A. come parte civile nel procedimento penale avente ad oggetto il reato, preveduto e punito dall'art. 651 c.p.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con sentenza pronunciata in data 11 ottobre 2002 e depositata il 25 novembre 2002 il Tribunale di Sulmona - per quanto qui interessa - ha condannato D'Andrea Corrado ad euro 200 di ammenda per rifiuto di generalità (art. 651 c.p.) a guardie del Parco Nazionale d'Abruzzo, che gliele richiedevano il 3 maggio 1998, nel corso di indagini concernenti il taglio di piante all'interno dell'area protetta; ha altresì pronunciato condanna al risarcimento del danno - liquidato in via equitativa nella misura di 1.000 euro - ed alla rifusione delle spese di patrocinio dell'Ente Parco, costituito parte civile. La prova del fatto è ricavata dalla deposizione degli agenti operanti, ed irrilevante è ritenuta la dedotta circostanza che essi conoscevano personalmente l'imputato, poiché la norma incriminatrice tutela l'interesse alla pronta e certa identificazione del soggetto. La legittimazione dell'Ente all'esercizio dell'azione civile è affermata sul rilievo dell'interesse al rispetto dei soggetti preposti alla sorveglianza dei beni affidati alla sua tutela.

Con atto sottoscritto dall'imputato e dal difensore è stato tempestivamente proposto appello (che si converte in ricorso per cassazione, trattandosi di sentenza inappellabile). Con un primo motivo viene dedotta l'insussistenza del reato in quanto le guardie operanti ben conoscevano il D'Andrea e potevano ricavarne ogni dato identificativo occorrente dalla documentazione in possesso dell'Ente; in subordine, viene rilevata la maturata prescrizione del reato. Quanto alle statuizioni civili, si censura il provvedimento ammissivo della costituzione dell'Ente, rilevando che l'esercizio dell'azione civile nel processo penale presuppone non un qualsiasi pregiudizio derivante dal fatto costituente reato, ma un danno risarcibile in quanto correlato alla lesione di una posizione giuridica soggettiva direttamente tutelata, il che dovrebbe escludersi quando il bene leso dal reato sia costituito da un interesse generale non riferibile ad un soggetto determinato.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - Va anzitutto rilevato che il reato si è prescritto nelle more del deposito della sentenza impugnata. Non vi sono, d'altra parte, ragioni tali da giustificare un proscioglimento con diversa formula ai sensi dell'art. 129 c.p.p.; infatti, poiché la ratio dell'incriminazione prevista dall'art. 651 c.p. è quella di salvaguardare l'esigenza di consentire una pronta e compiuta identificazione del soggetto, allo scopo precipuo di evitare intralci all'attività degli agenti istituzionalmente preposti a compiti di prevenzione, accertamento o repressione di attività illecite, o ad altre funzioni di vigilanza nell'interesse generale, non può valere ad escludere il reato né la circostanza che il pubblico ufficiale sia già in possesso di qualche notizia sull'identità personale del soggetto interpellato - o che questi la fornisca senza indicare completamente al momento le generalità richiestegli - né il fatto che la sua identificazione sia agevole, o sia in seguito avvenuta per un suo ripensamento (giurisprudenza costante; cfr., ad es., Cass., sez. I, 27 febbraio/25 marzo 1998, Soldani).

Tanto premesso, questa Corte è tenuta a decidere sull'impugnazione concernente gli interessi civili a norma dell'art. 578 c.p.p. Ritenuto, per le ragioni ora esposte, infondata la questione sollevata circa la...

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