Giurisprudenza di legittimità

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine877-911

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. III, 19 giugno 2008, n. 25104 (ud. 8 maggio 2008). Pres. Altieri - Est. Amoresano - P.M. (conf.) - Ric. Melesi

Beni immateriali - Diritti di autore (proprietà intellettuale) - Software - Detenzione a scopo imprenditoriale di programmi «pirati» presso lo studio di un professionista - Qualificazione del fatto come illecito penale - Fondamento - Fattispecie.

La detenzione e l'utilizzo di numerosi software, illecitamente riprodotti, in uno studio professionale integra l'illecito penale previsto dall'art. 171 bis, comma primo, della L. n. 633 del 1941, in quanto non è necessario che la riproduzione dei programmi per elaborazione sia finalizzata al commercio, ma è sufficiente ai fini della configurabilità del reato de quo il fine di profitto. (Nella fattispecie il ricorrente - libero professionista - aveva patteggiato la pena per il reato di detenzione abusiva di numerosi programmi per elaboratore non essendo munito della relativa licenza d'uso). (Mass. Redaz.). (L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 171 bis) (1).

    (1) Per Cass. pen., sez. III, 3 luglio 2007, Viganò, in questa Rivista 2008, 546, la modifica del primo comma dell'art. 171 bis della legge 27 aprile 1941, n. 633 (apportata dall'art. 13 della legge 18 agosto 2000, n. 248, che ha sostituito al dolo specifico del «fine di lucro» quello del «fine di trarne profitto»), comporta un'accezione più vasta, che non richiede necessariamente una finalità direttamente patrimoniale, ed amplia, pertanto, i confini della responsabilità dell'autore. Si veda anche Cass. pen., sez. III, 29 aprile 2002, Tavano, ivi 2002, 550, secondo la quale la fattispecie di duplicazione abusiva di programmi per elaboratore comprende non soltanto la produzione di copie non autorizzate del programma interessato, ma anche la condotta di indebita utilizzazione del programma stesso al fine di realizzare, mediante modifiche e sviluppi, un diverso prodotto per elaboratore, atteso che l'art. 171 bis sanziona ogni attività di riproduzione che contrasti con la volontà del titolare del bene, indipendentemente dalle modalità di successiva utilizzazione del programma riprodotto, e che l'art. 64 quater della stessa legge vieta espressamente lo sfruttamento dei codici del prodotto originale per l'elaborazione di un programma sostanzialmente simile nella sua forma.

MOTIVI DELLA DECISIONE. 1. - Con sentenza del 25 giugno 2007 il Gup del Tribunale di Lecco applicava a Melesi Giorgio, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e ritenuta la diminuente per la scelta del rito, la pena concordata ex art. 444 c.p.p. di euro 9.400,00 di multa (di cui euro 5.400,00 in sostituzione di mesi 4 di reclusione) per il reato di cui all'art. 171 bis comma 1 L. 633/1941, come modif. dalla L. 248/2000, per avere, al fine di trarne profitto, duplicato e riprodotto programmi software, di proprietà della società Microsoft Italia Spa ed Autodesk Inc., Adobe System Incorporeted, Symantec Corporation, senza averne acquistato la licenza d'uso.

Propone ricorso per cassazione il Melesi, a mezzo del difensore, per violazione di legge (art. 606 comma 1 lett. b) in relazione alla mancata applicazione dell'art. 129 c.p.p. stante l'insussistenza dell'ipotesi contestata a carico del ricorrente (dallo stesso tenore letterale dell'art. 171 bis L. 633/41 risulta che la norma mira a colpire esclusivamente l'illecita riproduzione di software finalizzata al commercio, mentre il Milesi si avvaleva degli stessi nello studio privato e per scopi professionali interni allo studio medesimo); in via gradata era configurabile un'ipotesi di responsabilità ex art. 174 ter comma 1 L. 633/41, che punisce con la sola sanzione amministrativa l'abusivo utilizzo, per esclusivi fini professionali, di prodotti informativi, privi della licenza d'uso.

Con il secondo motivo denuncia il difetto di motivazione in ordine al dolo specifico richiesto dalla norma, essendosi il Gup limitato a richiamare il fatto materiale dell'assenza di alcune licenze di software, attribuendo una sorta di responsabilità oggettiva al titolare dello studio.

  1. - Va premesso che l'applicazione della pena su richiesta delle parti è un meccanismo processuale in virtù del quale l'imputato ed il pubblico ministero si accordano sulla qualificazione giuridica della condotta contestata, sulla concorrenza di circostanze, sulla comparazione delle stesse, sull'entità della pena, su eventuali benefici. Da parte sua il giudice ha il potere-dovere di controllare l'esattezza dei menzionati aspetti giuridici e la congruità della pena richiesta e di applicarla dopo aver accertato che non emerga in modo evidente una delle cause di non punibilità previste dall'art. 129 c.p.p.

    Ne consegue che, una volta ottenuta l'applicazione di una determinata pena ex art. 444 c.p.p., l'imputato non può rimettere in discussione profili oggettivi o soggettivi della fattispecie perchè essi sono coperti dal patteggiamento.

    Con il ricorso per cassazione, pertanto, possono essere fatti valere errores in procedendo ed il mancato proscioglimento ex art. 129 c.p.p.

    È giurisprudenza consolidata di questa Corte che nell'ipotesi di concordato di applicazione pena ex art. 444 c.p.p. o ex art. 599 c.p.p. la motivazione del giudice sull'assenza dei presupposti che legittimano l'operatività di una delle cause di non punibilità pre-Page 878viste dall'art. 129 c.p.p. può essere anche meramente enunciativa o implicita. Il giudice è tenuto, cioè, a controllare l'inesistenza di una delle cause di non punibilità, ma può enunciare, con motivazione anche implicita, che è stata compiuta la verifica richiesta dalla legge (cfr. ex multis Cass. pen., sez. II, n. 14023 del 3 febbraio 2004; conf. Cass. pen., sez. VI, n. 41712 del 2 ottobre 2006).

    2.1. - Tanto premesso, osserva il collegio che i motivi di ricorso appaiono manifestamente infondati, avendo il giudice, nell'applicare la pena concordata, congruamente, nei termini sopra indicati, e correttamente motivato in ordine alla insussistenza delle condizioni per l'applicabilità dell'art. 129 c.p.p.

    Per la configurabilità del reato di cui all'art. 171 bis non è richiesto, infatti, che la riproduzione del software sia finalizzata al commercio, essendo sufficiente il fine di profitto, come contestato, né il dolo specifico del fine di lucro.

    Ha più volte affermato questa Corte che, a seguito della modifica del primo comma dell'art. 171 bis L. 27 aprile 1941 n. 633 (apportata dall'art. 13 L. 18 agosto 2000 n. 248), non è più previsto il dolo specifico del «fine di lucro» ma quello del «fine di trarne profitto»; si è, quindi, determinata un'accezione più vasta che non richiede necessariamente una finalità direttamente patrimoniale ed amplia quindi i confini della responsabilità dell'autore (cfr. ex multis Cass. pen., sez. III, n. 33303 del 6 settembre 2001; Cass. pen., sez. III, n. 149 del 9 gennaio 2007).

    La detenzione e l'utilizzo di numerosi programmi software, illecitamente riprodotti, nello studio professionale rende manifesta la sussistenza del reato contestato, sotto il profilo oggettivo e soggettivo.

    Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma che pare congruo determinare in euro 1.500,00 (art. 616 c.p.p.). (Omissis).

    @CORTE DI CASSAZIONE Sez. III, 16 giugno 2008, n. 24338 (ud. 15 aprile 2008). Pres. Onorato - Est. Amoresano - P.M. Iacoviello (diff.) - Ric. Capuano

    Misure di prevenzione - Singole misure - Divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche - Condizioni di applicabilità - Pericolosità sociale «intrinseca» - Esclusione - Fattispecie.

    Ai fini dell'applicabilità della misura di prevenzione atipica prevista dall'art. 6 della L. 13 dicembre 1989, n. 401, non è richiesta la formulazione di un giudizio di pericolosità sociale «intrinseca» del soggetto, essendo sufficiente accertare che questi abbia preso parte attiva ad episodi di violenza a causa o in occasione di manifestazioni sportive. Nel caso di specie la pericolosità è stata desunta in particolare dalla condotta violenta tenuta dal soggetto il quale, «nonostante la presenza alla manifestazione sportiva di figure istituzionali e di forze dell'ordine e nonostante la sua qualità di consigliere comunale e, quindi, tenuto conto della ridotta capacità di autoregolamentazione», aveva colpito con un calcio da tergo un giornalista, mentre si trovava in tribuna al termine di una partita di calcio. (Mass. Redaz.). (L. 13 dicembre 1989, n. 401, art. 6) (1).

      (1) Conforme Cass. pen., sez. I, 2 marzo 2004, Gallo, pubblicata per esteso in questa Rivista 2004, 631. Secondo tale precedente non si richiede, per l'applicazione delle misure previste dall'art. 6 della legge n. 401/89, la formulazione di un giudizio di intrinseca «pericolosità» del soggetto, ma soltanto l'accertamento che il medesimo risulti denunciato o condannato per taluno dei reati ivi indicati, ovvero «per aver preso parte ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive», ovvero ancora che egli abbia «incitato, inneggiato o indotto alla violenza»; situazioni tutte, queste, ritenute dal legislatore di per sé idonee a giustificare tanto il divieto di accesso ai luoghi interessati da manifestazioni sportive quanto l'obbligo di presentazione ad un ufficio o comando di polizia. Dello stesso tenore Cass. pen., sez. I, 2 luglio 2004, Berardini, ivi 2005, 780, secondo cui la misura de qua è collegata ad una situazione di pericolosità desunta in via esclusiva dai fatti specifici commessi in occasione di manifestazioni sportive e non della complessiva personalità dell'obbligato.

    MOTIVI DELLA DECISIONE. 1. - Il Questore di Benevento, con provvedimento in data 30 giugno 2007, notificato il 3 luglio 2007, vietava a Capuano Antonio di accedere ad impianti...

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