Giurisdizione e autogoverno

AutoreVito Marino Caferra
Pagine95-156
CAPITOLO TERZO
Giurisdizione e autogoverno
1. Il potere diffuso e i suoi limiti
La misura del potere che la legge attribuisce a ciascun ufficio
giudiziario (e a ciascun magistrato) è data dalla sua natura di “po-
tere diffuso” e dalla incompatibilità della funzione giudiziaria con
il principio gerarchico.
Come è noto, il potere giudiziario non è concentrato in pochi
soggetti (né è organizzato in forma gerarchica) ed è radicato nel
territorio, in cui ciascun ufficio – nei limiti di competenza fis-
sati dalla legge – e ciascun magistrato (secondo le previsioni
delle tabelle di organizzazione dell’ufficio cui appartiene) di-
spone di tutti i poteri inerenti alle funzioni, requirenti o giudi-
canti, previste dall’ordinamento ed è autonomo e indipendente
dagli altri poteri dello Stato. Con la conseguenza che, secondo
questo modello, il controllo di legalità affidato alla magistratu-
ra viene esercitato nei confronti di tutti i cittadini (non esclusi
gli stessi magistrati) senza la possibilità giuridica di condizio-
namenti.
L’ambito della competenza giurisdizionale è stabilito dalla
legge processuale, che – secondo il principio del “giudice natura-
le” (art. 25, comma 1°, Cost.) – deve individuare il giudice com-
petente alla stregua di criteri generali predeterminati prima del
giudizio: quindi mediante una determinazione ex ante e in astrat-
to, e non ex post e in concreto.
Per definire gli esatti confini in cui deve agire il giudice (natu-
rale), nel caso di conflitti in ordine alla competenza o alla giuri-
sdizione i codici di rito predispongono idonei strumenti di regola-
mento (artt. 41 ss. c.p.c. e 28 ss. c.p.p.); analoghi rimedi sono
previsti nel caso di contrasti tra i PM (artt. 54 ss. c.p.p.).
La Giustizia e i suoi nemici
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Entro quei confini ciascun magistrato opera nella pienezza del
suoi poteri essendo soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma
2, Cost.); analogamente opera il p.m. che ha l’obbligo di esercita-
re l’azione penale (art. 112 Cost.).
Non mancano tendenze normative che portano a ridimensiona-
re gli aspetti positivi di un potere diffuso, concentrando il potere
giudiziario in alcune sedi e nelle mani di un numero limitato di
magistrati.
Al fine di contrastare la grande criminalità, con il d.l. n. 367/91
(convertito in legge n. 8/92) sono state istituite le Direzioni distret-
tuali antimafia (DDA), con sede presso il tribunale del capoluogo
del distretto, competenti a trattare con più ampi poteri investigativi
i procedimenti relativi a taluni reati tipici della criminalità organiz-
zata (indicati nell’art.51, comma 3 bis cod. proc. pen.).
Nella prassi operativa l’ambito dei poteri di questi nuovi uffici
giudiziari tende ad espandersi mediante i meccanismi della com-
petenza per connessione e dei collegamenti investigativi, nonché
mediante la eccessiva dilatazione delle fattispecie criminose.
Con la stessa legge è stata istituita la Direzione nazionale anti-
mafia (DNA) con compiti di “centrale del coordinamento investi-
gativo” nei procedimenti di criminalità organizzata.
Tra i poteri attribuiti al Procuratori nazionale antimafia (elenca-
ti nell’art. 371 bis cod.proc.pen.) non rientra l’esercizio dell’azio-
ne penale, che spetta ai procuratori distrettuali, né un autonomo
potere di indagine.
Tuttavia nella prassi operativa deve registrarsi una tendenziale
espansione delle funzioni investigative, che mette in discussione
il carattere di potere diffuso e autonomo della funzione giurisdi-
zionale con possibili sconfinamenti e attentati all’indipendenza
del P.M. e del giudice1.
In particolare, il potere di acquisire ed elaborare notizie, infor-
mazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata ai fini del co-
1 Cfr. L. FERRAJOLI, in Mafia e criminalità organizzata. Profili processuali
(a cura di P. CORSO, G. INSOLERA e L. STORTONI), II, Torino 1995, pp. 457 ss.
Capitolo terzo – Giurisdizione e autogoverno
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ordinamento investigativo e della repressione dei reati (lettera c)
dell’art.371 bis cod. proc. pen.), essendo finalizzato a diretti risul-
tati investigativi per la repressione dei reati (anche attraverso
l’impiego della Direzione Investigativa Antimafia e dei servizi
centrali e interprovinciali di polizia), presenta l’evidente rischio
di modificare gli equilibri concepiti dal legislatore con il nuovo
codice di procedura penale introducendo una verticalizzazione
negli uffici del Pubblico Ministero.
Un’altra tendenza, che rende poco realistica la definizione del
giudiziario come di “un potere diffuso”, viene colta nella espan-
sione del ruolo del CSM che tende sempre più a diventare il ver-
tice del sistema giudiziario: un vertice organizzativo, di “ammini-
strazione della giurisdizione” che tuttavia tende a lambire in via
diretta o indiretta la concreta attività giurisdizionale2.
Infine una tendenza che conduce ad una progressiva erosione
di fatto del potere diffuso si realizza mediante la occupazione di
posizioni-chiave da parte di soggetti uniti da dichiarate ragioni
ideali o da vincoli di altra natura, che inevitabilmente incidono
sullo sviluppo e sull’esito dei processi: la tendenza è ancor più
pericolosa se, mediante idonei collegamenti informali, si decido-
no strategie processuali e linee di condotta, che rendono vane le
garanzie del sistema delle impugnazioni.
La indipendenza funzionale. È noto che la indipendenza dell’or-
dine giudiziario e dei singoli magistrati costituisce la condizione
essenziale dell’attività giurisdizionale (art. 101 e 104, comma 1°,
Cost)3.
In particolare, la indipendenza nell’esercizio in concreto della
funzione giudiziaria (c.d. indipendenza funzionale) si manifesta
nel principio del “libero convincimento”, che riconosce al magi-
strato un ampio spazio di libertà nella valutazione del fatto e delle
2 Vedi più diffusamente infra i paragrafi 2 e 3.
3 Sul tema dell’indipendenza (e sulle varie distinzioni e classificazioni)
leggi N. ZANON, F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, Bolo-
gna 2008, pp. 45 ss.

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