Il giudizio di appello penale nel suo aspetto pratico

AutoreFrancesco Bartolini
Pagine369-382

    Conversazione tenuta in Alessandria il 7 giugno 2002.


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Nulla di più facile, per un operatore del diritto, che redigere un atto di appello penale. È sufficiente scrivere che la sentenza di primo grado ha erroneamente apprezzato il materiale probatorio, chiedere una riduzione della pena, le attenuanti generiche o la loro prevalenza sulle aggravanti. Cosa diversa è, poi, conoscere in modo sufficiente la disciplina del giudizio di appello, nelle sue pieghe nascoste e nei suoi dettagli enucleati dalla elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale.

La disciplina del giudizio di appello occupa, nel contesto del codice di rito, soltanto 13 articoli, dal 593 al 605. Ad essa lo stesso codice premette, tuttavia, l'esposizione di una normativa generale dedicata alle impugnazioni, sì che quella successiva, specifica per l'appello, detta in realtà le regole particolari a questo tipo di gravame. Occorre, inoltre, tener conto della molteplicità dei riti processuali attraverso i quali è definito il processo di primo grado: tra le altre forme, il rito abbreviato, l'applicazione concordata della pena, il giudizio dinanzi al giudice di pace. Ed occorre altresì considerare le alternative che lo stesso grado di appello offre all'interessato, con la possibilità di chiedere la riapertura del dibattimento, di accontentarsi di un'udienza a comparizione facoltativa oppure di ricorrere ad un patteggiamento, sia pure sui generis. Infine, dottrina e giurisprudenza hanno tratto dalle disposizioni del diritto positivo principii e regole le cui conseguenze applicative sono di rilevante importanza anche e proprio sul piano degli effetti concreti.

Di seguito si segnalano alcuni degli aspetti più significativi della normativa vigente per il giudizio di appello con riguardo specifico ai risvolti di attuazione pratica: senza pretese di completezza, a causa della reale vastità dell'argomento.

@1. I provvedimenti appellabili.

@@1.1. Sentenze pronuciate in esito a giudizio dibattimentale.

La regola generale, stabilita nell'art. 593, è nel senso che il pubblico ministero e l'imputato possono appellare le sentenze di condanna e di proscioglimento. Questo principio incontra, per dettato dello stesso art. 593, subito eccezioni:

- l'imputato non può appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate con le formule «perché il fatto non sussiste» o «per non aver commesso il fatto», posto che in proposito egli difetta di interesse ad una riforma della decisione, non esistendo formule più favorevoli (l'inappellabilità vale anche in relazione ad argomentazioni e motivazioni che possono non essere gradite);

- sia il P.M. che l'imputato non possono appellare:

a) le sentenze di condanna che hanno applicato la sola pena dell'ammenda;

b) le sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa.

I casi di inappellabilità sub a) e sub b) meritano qualche precisazione. Il testo dell'art. 593 cui si fa riferimento è stato fissato con la modifica dovuta alla legge 26 marzo 2001, n. 128, che ha sostituito il terzo comma dell'art. 593, quale a sua volta sostituito dalla legge 24 novembre 1999, n. 468.

Per l'inapplicabilità delle sentenze di condanna (caso sub a), la legge citata ha innanzitutto confermato che si deve avere riguardo alla pena applicata in concreto e non già alle pene edittali previste per il reato per cui si procede (in precedenza il dettato legislativo originario aveva dato luogo a dubbi, soprattutto per i casi di sostituzione di pene detentive con quelle pecuniarie). Quale sia la nozione di pena in concreto lo si desume dall'applicazione giurisprudenziale. La Corte di cassazione, in realtà, non tiene conto del risultato finale della sentenza nei casi in cui la pena detentiva dell'arresto è sostituita con quella dell'ammenda. In questo caso, la pena in concreto (l'ammenda) comporterebbe l'inappellabilità e l'esperibilità del solo ricorso; si afferma, invece, che va tenuto conto della pena irrogata prima della sostituzione. Sul punto le decisioni conformi sono numerose. La soluzione adottata è quella maggiormente garantista, a detta di Cass. pen., sez. III, 8 novembre 1999, Zorzi; sussiste inoltre sempre la possibilità della revoca della pena pecuniaria, si è anche osservato).

Inoltre, e soprattutto, la modifica ha reintrodotto l'appellabilità delle sentenze di condanna alla pena pecuniaria della multa, che era stata esclusa dalla legge 24 novembre 1999, n. 468. Il succedersi degli interventi modificativi dovuti a tale legge ed a quella successiva del 2001 ha condotto a questa situazione: per poco più di un anno (tutto il 2000 e i primi tre mesi del 2001) non sono state appellabili le sentenze di condanna che hanno irrogato la sola multa o la sola ammenda; poi si è giunti a stabilire che sono inappellabili soltanto le condanne alla pena dell'ammenda. Il sollievo per le corti di appello, che si erano viste liberate da una congerie di procedimenti di modesto spessore, è stato breve. Si è subito attivata l'azione decisa di importanti gruppi di pressione: imprenditori, medici e giornalisti. Proprio con la pena della multa, infatti, si era soliti sanzionare gli esiti colposi degli infortuni sul lavoro, le imperizie professionali a danno di pazienti e di ricoverati nonché i delitti di diffamazione a mezzo stampa. Per questa tipologia di reati era venuta meno l'esperibilità di un secondo grado di giudizio esteso al merito e la circostanza era apparsa gravemente lesiva delle aspettative di tutela di porzioni significative di probabiliPage 370 candidati al processo penale. Molto significativamente un diffuso quotidiano economico titolò in questo modo la notizia di un ritorno al gravame per motivi di merito nelle dette materie: «La diffamazione ritrova l'appello» e applaudì ad una riforma che poneva fine ad una situazione che «aveva inferto un colpo durissimo alla libertà di stampa, alla tranquillità economica e psicologica dei giornalisti e ai bilanci delle aziende editoriali, perché privava dell'appello i giornalisti condannati per il reato di diffamazione... lo stesso discorso era stato fatto per imprenditori e dirigenti aziendali, accusati del reato di lesioni personali colpose...». Una giustificazione meno enfatica, e più ragionevole, fu fornita dal relatore della legge di modifica del 2001, il quale osservò che il ripristino dell'impugnazione con appello si era reso necessario in considerazione dei risvolti civilistici conseguenti alle pronunce sui reati in questione, in ordine ai quali quasi sempre si registrava nei procedimenti penali la costituzione di parte civile delle persone offese.

I pacchi di fascicoli migrati verso la Cassazione non erano, però, ritornati alle Corti: perché in proposito si è interpretativamente stabilito che il regime dell'impugnabilità dei provvedimenti segue il principio tempus regit actum. In forza di detto principio, comune al diritto processuale penale ed a quello civile, doveva, a proposito delle impugnazioni, farsi applicazione della legge vigente nel periodo di tempo intercorrente tra la pronuncia della sentenza e la scadenza del termine per impugnare (Cass., sez. V, 6 luglio 2001, Giacomelli). Pertanto, le impugnazioni proposte con ricorso per cassazione prima dell'entrata in vigore della riforma apportata nel 2001 dovevano seguire la disciplina vigente all'epoca, sì che per i relativi procedimenti non era possibile l'appello. Questa regola, proceduralmente corretta, è apparsa anch'essa inaccettabile dai gruppi di pressione sopra menzionati, i quali hanno ottenuto di far approvare una normativa che la disconosce. Infatti, la legge 19 aprile 2002, n. 72, ha inteso disciplinare la sorte di quelle sentenze divenute impugnabili con il solo ricorso per cassazione nel lasso temporale di poco più di un anno passato tra le due modifiche ed ha stabilito che la parte, che ebbe a presentare ricorso per cassazione, possa chiedere la conversione in appello, entro un breve termine, e possa, altresì, presentare motivi di impugnazione estesi al merito.

Il secondo caso di inappellabilità, quello delle sentenze di proscioglimento indicato sub b), è derivato, anch'esso, da una successione di modifiche. Con la legge del 1999 si era stabilito che non fossero appellabili le sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, fossero essi delitti o contravvenzioni. In proposito, il riferimento era alle pene edittali e non alla pena in concreto. Nel testo vigente, introdotto nel 2001, si dispone l'inappellabilità delle sole sentenze relative a contravvenzioni, punite edittalmente con la sola ammenda o con pena alternativa. Anche con riguardo a questa modifica la legge 19 aprile 2002, n. 72, avente valore di disciplina transitoria, prevede la facoltà per la parte ricorrente di chiedere la conversione del ricorso per cassazione in appello, con integrazione di motivi al merito.

La regola, dunque, oggi è la seguente. Se si tratta di delitti, sono appellabili tanto le sentenze di condanna quanto quelle di proscioglimento, sia dal P.M. che dall'imputato. Se si tratta di contravvenzioni, le sentenze sono appellabili soltanto se hanno irrogato l'arresto mentre le sentenze di proscioglimento sono appellabili soltanto se relative a reati puniti unicamente con l'arresto. Solo per l'imputato vale l'eccezione per cui se questi è stato assolto con le formule più favorevoli non v'è interesse a proporre appello.

Tale è il quadro normativo, che è riferito «alle sentenze» come atto tipico del giudice, conclusivo di un giudizio. Esso attiene al contenuto tipico dell'atto-sentenza, cioè alla pronuncia sulla responsabilità penale, nei due esiti di condanna o di proscioglimento. Ma la pronuncia giudiziale può avere contenuto più complesso e la doglianza di chi la subisce può essere riferita soltanto ad un punto o ad un capo della pronuncia. Si intende...

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