Gioco, diritto, contratto

AutoreFederico Azzarri
Pagine299-224

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Mêlons!

Coupons!

Bien! C’est cela!

Trois cartes ici, quatre là!

Et maintenant, parlez, mes belles, de l’avenir, donnez-nous des nouvelles.

H. Meilhac e L. Halévy - G. Bizet, Carmen, III, sc. II

@1. Il gioco e la scommessa. Un sentiero fra diritto interno e libertà europee

In un importante saggio del 1938, pochi anni prima di essere imprigionato dai nazi- sti che avevano occupato l’Olanda e della cui catastrofica ascesa, da attento storico, era stato presago, Johan Huizinga scriveva che il gioco «non è la vita “ordinaria” o “vera”, ma un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria»1. Il gioco appariva allo Scrittore come «un intermezzo della vita quotidiana, una ricreazione»2, che in ogni epoca3 ha significato per gli individui e la società la ricerca di una metaforica via di fuga dal mondo reale verso «un mondo particolare di provvisoria validità»4.

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L’istinto ludico e, in particolare, quello agonale sarebbero a tal punto innatinell’uomo da poterli ritenere base e fattore di cultura5, qui intesa nell’accezione, dalla latitudine quasi spregiudicata, di complesso di fenomeni sociali6. L’aspirazione ad essere i primi e ad essere per ciò onorati, il riconoscimento di regole convenzionali, l’abbandono momentaneo e consapevole della propria dimensione non animano, se condo Huizinga, solo i partecipanti ad una gara, ma sorreggono le più disparate manifestazioni umane, come l’arte, il sapere, lo sport, il diritto, il culto, o, addirittura, la guerra7.

Non possiamo soffermarci sulle suggestive tesi del grande studioso olandese, ma abbiamo cominciato con le sue riflessioni perché proprio da queste muoveva un insegnamento dei giuristi del passato che precludeva al gioco l’accesso al mondo del diritto. La ragione era che in esso si scorgeva “soltanto” un elemento di capitale importanza nella storia della cultura8, ma, a differenza della scommessa, insuscettibile di rilevanza economica9.

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Si tratta di un’idea un po’ manichea, non curante del fatto che pure un gioco, o, per esser più precisi, le sue regole possono aspirare alla dignità giuridica10 propria degli atti di autonomia privata. Al diritto dei contratti, infatti, interessano quei negozi da cui nascono effetti giuridici patrimoniali, e tali possono essere tanto gli accordi di gioco quanto quelli di scommessa, purché la loro vincolatività non sia affidata unicamente al valore simbolico del gentlemen’s agreement e della sanzione sociale, ma venga suggellata dall’impegno economico delle parti11. Tale circostanza innalza il fatto ludico al rango di un atto giuridico12, che, però, è dotato di una peculiare e diversificata coercibilità in ragione del bilanciamento fra l’interesse delle parti e il costo della coazione giudiziaria13.

Gioco e scommessa non differiscono dunque in ordine all’elemento patrimoniale, ma sono endiadi14: individuano la stessa fattispecie di contratto aleatorio il cui contenuto può attuarsi secondo diverse modalità. La dottrina più moderna indica col primo l’accordo con cui le parti stabiliscono di effettuare una gara od una partita secondo certe regole pattuite, obbligandosi ad una prestazione patrimoniale a favore di chi, all’esito della partita o della gara, risulterà vincitore; diversamente, invece, viene chiamata scommessa la pattuizione mediante la quale due o più persone si promettono reciprocamente di eseguire una determinata prestazione di contenuto patrimoniale a favore di chi avrà formulato il pronostico esatto circa un dato evento ignoto15. Il discriPage 302men risiede, insomma, nella partecipazione o meno dei paciscenti alla determinazione dell’evento.

Non a caso, il legislatore ha previsto al Capo XXI del Libro IV del Codice civile una disciplina uniforme per entrambi i contratti, mentre gli artt. 718 ss. cod. pen. fanno genericamente riferimento ai «giuochi d’azzardo», senza per questo voler escludere la possibile illegalità delle scommesse.

Oltre alle norme codicistiche, la materia di cui ci occupiamo è interessata da una regolamentazione che sancisce una vera e propria privativa pubblica sui giochi organizzati16, come il Lotto, il Totocalcio o le scommesse sportive, rispetto ai quali i privati possono essere esclusivamente concessionari o autorizzati al loro esercizio.

Col regime concessorio lo Stato ha voluto evitare che il mercato dei giochi fosse libero ed incontrollato, non tanto per il timore che i cittadini, travolti dalla passione per l’azzardo, ossia dal «fascino di guadagnare tutto in una volta, senza fatica, in un attimo»17, si riducano come i desolanti protagonisti del Giocatore di Dostoevskij, bensì per canalizzare le ingenti risorse economiche mosse dal gioco all’interno di circuiti controllati ed impermeabili ad ogni infiltrazione criminale (nel solo 2007 i giochi pubblici, esclusi quelliPage 303praticati nei casinò, hanno registrato una raccolta di 42,2 miliardi di euro, pari al 2% del p.i.l.)18.

L’esigenza di contrastare il rischio che l’ampio volume d’affari si riversi in attività illecite, come il riciclaggio di denaro sporco o l’usura, giustifica la riserva dell’organizzazione delle scommesse e dei concorsi pronostici (già di appannaggio pubblico ex art. 1 d. lgs. 14 aprile 1948, n. 492) istituita a favore dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato col d.p.r. 24 gennaio 2002, n. 33. L’Amministrazione provvede poi ad affidare la gestione dei singoli giochi ai concessionari, mentre la legge penale è un presidio contro ogni interferenza abusiva (l. 13 dicembre 1989, n. 401).

In teoria questo sistema è ragionevole, perché opera una sorta di “riduzione del danno”: acclarato che nel nostro paese scommesse e affini godono di un incrollabile appeal (peraltro imperituro, se già il Polacco parlava del Lotto come di un’«istituzione di Stato» e gli affibbiava l’etichetta di «lucrosissima imposta sull’ignoranza delle popolazioni»19), si fa almeno in modo che il banco sia tenuto da soggetti controllati e reputati idonei dai poteri pubblici, i quali, peraltro, ne traggono un discreto vantaggio erariale, pari nel 2007 a 7,2 miliardi di euro.

Negli ultimi anni, però, sono sorti seri dubbi sull’adeguatezza della normativa interna alla luce di quella comunitaria, poiché le procedure per il rilascio delle concessioni non sono state in grado di assicurare il rispetto delle libertà di stabilimento e di prestazione di servizi sancite dal Trattato CE (artt. 43 e 49). Esemplare è il caso del Superenalotto, per il quale l’AAMS aveva prorogato per cinque anni la concessione alla società aggiudicataria senza indire alcuna gara, ma con un semplice provvedimento interno puntualmente annullato dai giudici di Palazzo Spada perché derogatorio delle regole nazionali ed europee che impongono la procedura ad evidenza pubblica20.

Sull’aderenza del nostro sistema al diritto europeo è intervenuta anche la Corte di Giustizia ribadendo il principio, destinato auspicabilmente ad ispirare un riassetto normativo ormai non più prorogabile, secondo cui ogni limitazione imposta al mercato dei giochi non può giustificarsi in via apodittica, ma deve risultare adeguata e non sproporzionata rispetto ai fini che lo Stato si propone di raggiungere, tenuto anche conto dei suoi obiettivi di politica sociale. Questo criterio è stato in modo piuttosto formalistico riconosciuto anche dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Cassazione21Page 304che lo hanno acriticamente ritenuto rispettato dall’ordinamento italiano sulla base delle usate ragioni di sicurezza pubblica, trascurando, invece, di saggiarne l’effettiva vigenza, e dando così origine ad una contrastante dialettica con i tribunali di primo grado.

Solo recentemente, come diremo più avanti, la Suprema Corte ha davvero recepito gli impulsi della giurisprudenza comunitaria, il cui ragionamento prende le mosse dall’idea che l’organizzazione di giochi, pur essendo attività di prestazione di servizi22, possa, per motivi di ordine pubblico ed interesse generale (artt. 46 e 55 Tratt. CE), essere assoggettata a restrizioni, ma solo in presenza di certi presupposti.

Le restrizioni al mercato dei giochi, infatti, non possono andare a discapito della libera concorrenza e tradursi in un indebito vantaggio per taluni operatori a danno di altri, ma debbono essere volte a contenere la domanda e l’offerta negli individuati perimetri legali. Detto scopo può anche essere perseguito attraverso il sistema delle concessioni, purché i requisiti necessari per il loro rilascio risultino, come anticipato, adeguati e non sproporzionati in considerazione delle politiche pubbliche prefisse23.

Nel nostro ordinamento esisteva una norma che impediva alle società quotate su mercati regolamentati di rendersi concessionarie, malgrado esercitassero in altri Paesi dell’Unione la stessa attività di bookmaker. Ne conseguiva che anche i soggetti operanti per loro conto in Italia non potessero dotarsi della licenza prevista dall’art. 88 T.u.l.p.s. (r.d. 18 giugno 1931, n. 773), incorrendo così nel reato previsto all’art. 4, co. 4-bis, della l. 401/89.

Questo combinato disposto era stato portato da alcuni giudici di merito all’attenzione della Corte di giustizia, che aveva ritenuto il divieto posto alle società quotate, peraltro venuto meno con la Legge finanziaria del 2003, eccessivo in ordine ai fini cui era preposto.

Se, infatti, l’Italia si fosse adoperata per ridurre le occasioni di gioco, una norma che, stabilendo un rigido criterio, restringesse il cerchio dei soggetti abilitati a tenere il banco sarebbe stata comprensibile. Ma nel momento in cui viene intrapresa una policy di segno opposto, volta, per bieco interesse erariale, ad ampliare in larga misura l’offerta dei giochi, una simile giustificazione non può chiaramente essere addotta. Il divieto per le società quotate di divenire concessionarie finiva allora per essere motivato con la necessità di evitare che ricoprissero tale ruolo persone giuridiche dagli assetti interni poco...

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