Gerarchia delle fonti giuridiche e graduazione degli interessi in materia condominiale

AutoreRoberto Viganò
Pagine33-35

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    Intervento al 13º Convegno del Coordinamento legali Confedilizia (Piacenza, 13 settembre 2003).

  1. Mi piace pensare che gli studiosi che dedicano la loro attenzione al condominio debbano essere grati al legislatore italiano per due buone ragioni: la prima consiste nell'avere il legislatore delineato la disciplina che riguarda la materia dapprima in una normativa specifica 1 sufficientemente coerente e ben strutturata, per poi ricomprenderla - in una elaborazione sostanzialmente uniformata alla precedente disciplina - nel libro terzo del codice civile; la seconda ragione consiste nel fatto che, a partire dai primi anni ottanta dell'ormai trascorso secolo ventesimo, il legislatore è intervenuto a più riprese, anche se in modo disorganico e talvolta persino estemporaneo, a mettere mano ad alcuni aggiustamenti normativi dovuti alle esigenze emerse in una realtà complessa quale quella dell'abitare in un edificio condominiale 2.

    Con ciò voglio dire che se è stato possibile in una prima istanza delineare alcune linee-guida interpretative dell'istituto condominiale, riconducendo l'attenzione dello studioso vuoi verso le problematiche inerenti il dualismo proprietà comune-proprietà individuali, vuoi verso la ricerca di una struttura non dichiarata (eppure ritenuta presente, ed unitaria, quale l'ente di gestione), vuoi infine verso le più varie forme sincretiche 3, i recenti disordinati interventi legislativi danno spazio allo studioso per suggerire nuove e diverse qualificazioni: l'interesse dell'indagine dogmatica si è spostato, infatti, più verso gli interessi dei condomini che non verso l'organismo «edificio condominiale»; la giurisprudenza, soprattutto di legittimità, attenta ai fenomeni evoluzionistici, ha realizzato non pochi aggiustamenti, cercando di rendere compatibile il nuovo con l'antico; in questo aiutata dalla risorsa consistente nell'individuare in altre fonti, soprattutto quelle di primario rilievo, i principi di riferimento cui far ricorso nell'affrontare le nuove tematiche.

    Insomma: lo studioso del diritto condominiale ha il privilegio di poter dire sempre qualcosa di nuovo in una materia che, altrimenti, avrebbe avuto il destino di essere seppellita nel cimitero del déjà vu, déjà dit.

  2. Come è noto, l'art. 1 preleggi enuncia la gerarchia tra le fonti del diritto; con la disposizione vanno anche correlati i principi (che danno, per così dire, l'imprinting) della prima parte della Costituzione, e le disposizioni del diritto comunitario: non senza aggiungere che la riforma del titolo quinto della Costituzione 4 ha aperto non pochi problemi di coordinamento gerarchico fra materie in cui sono ripartite norme afferenti materie di competenza concorrente fra lo Stato e le Regioni 5. Non è qui il luogo ove affrontare, un pò meno epidermicamente, l'argomento, del resto oggetto di ampie ricerche da parte della dottrina 6 costituzionalistica e non solo. Ciò che qui interessa rilevare è che non sempre, in materia condominiale, alla gerarchia normativa - più o meno rispettata sotto il profilo formale da parte del legislatore - corrisponde la medesima gerarchia fra principi (o meglio: criteri generali), ai quali far riferimento nell'esame delle singole fattispecie attinenti al vivere insieme nell'ambito dell'edificio in condominio.

    Faccio un esempio per spiegarmi: il contenuto del diritto di proprietà (art. 832 c.c.), che afferma «il diritto di godere delle cose in modo pieno ed esclusivo», sia pure «entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico», viene talvolta a collidere con la disposizione del regolamento condominiale (consistente questo in un complesso di norme di origine privata) che vieta un uso indiscriminato del proprio bene (unità immobiliare), in ipotesi laddove il regolamento, in ipotesi, non consenta di utilizzare l'immobile come ambulatorio medico. È ben vero che potrebbe sostenersi che la fonte primaria oggetto del divieto consisterebbe nel patto contrattuale stipulato ab origine [e cioè all'atto della formazione del regolamento 7 c.d. contrattuale] tra le parti (di solito, il costruttore-venditore dell'edificio che diverrà «condominiale» e l'acquirente della singola unità immobiliare, che diverrà «condomino»), ma anche i loro danti e aventi causa, nel quale le parti (o traslativamente i loro danti causa) volontariamente hanno espresso la volontà di rinunciare all'esercizio di facoltà insite nel proprio diritto (di proprietà); ed un siffatto patto troverebbe origine e riferimento nella norma dell'art. 1322, primo comma, c.c., che consente alle parti di liberamente determinare il contenuto del contratto, sempre però nei limiti imposti dalla legge (e non v'è dubbio che la legge consenta una siffatta rinuncia o limitazione al proprio diritto).

    Tuttavia, ad un esame più immediato, la gerarchia tra le fonti appare sconvolta: è la disposizione pattizia limitativa del diritto che prevale sulla generale affermazione del contenuto del diritto. Ma ciò, ripeto, è previsto e consentito.

    L'esempio fatto si riferisce peraltro alla limitazione (volontaria) di un diritto patrimoniale, questa del tutto ammissibile. Analogo esempio, ma di portata assai più sconvolgente, si potrebbe fare...

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