Profili generali di liceità ed illiceità nella contenzione dei pazienti psichiatrici

AutoreGiuseppe Pavich
Pagine367-372

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Il problema della rilevanza penale dell'impiego di strumenti di contenzione nei confronti di pazienti psichiatrici, e più in generale del mantenimento dei malati in tale stato, risulta invero scarsamente esplorato nelle aule di giustizia, ma alquanto dibattuto sul piano dottrinario, non solo strettamente giuridico, ma anche medico-legale, alla ricerca della linea di discrimine tra lecito ed illecito in materia di contenzione forzata a letto dei malati psichiatrici.

In gioco, oltre a beni costituzionalmente tutelati (dall'art. 13 e dall'art. 32 in particolare), vi è in estrema sintesi la configurabilità o meno di ipotesi delittuose riferibili al rapporto sanitario-paziente, laddove da un lato la privazione della libertà del secondo da parte del primo può determinare una condotta riconducibile a varie figure di reato, primo tra tutti il sequestro di persona (art. 605 c.p.); dall'altro, la posizione di garanzia attribuita al personale medico e infermieristico può determinare che, in caso di inerzia di fronte a pazienti in particolari condizioni, il sanitario possa trovarsi a rispondere di eventi lesivi o dannosi da questi cagionati su di sè o su terzi, o delle conseguenze negative sul piano terapeutico del manifestarsi di crisi di particolare gravità (ex art. 40 cpv. c.p.).

Il tema in questione costituisce, sia pure solo in parte, una propaggine della più ampia tematica della rilevanza penale, e della possibile sussistenza di cause di giustificazione, nei casi di trattamenti sanitari che comportino un sacrificio della libertà, dell'integrità personale e/o della volontà del paziente, in nome della prevalente tutela di altre categorie di beni della vita.

Ciò vale con riferimento ai profili lato sensu terapeutici della pratica della contenzione del paziente psichiatrico: laddove, cioè, tale pratica rivesta rilievo di supporto o di ausilio al trattamento sanitario propriamente detto, ossia ai fini della somministrazione di farmaci o dell'attivazione di altre forme d'intervento non altrimenti praticabili se non con la sottoposizione del paziente, in relazione alle sue condizioni più o meno contingenti, a restrizione o, al limite, ad immobilizzazione fisica.

Il rapporto da genus a species tra le categorie tematiche delle scriminanti in materia di trattamento sanitario e della contenzione dei pazienti psichiatrici è, però, come si è accennato, solo parziale.

Non può, infatti, trascurarsi - e meglio lo si vedrà nel seguito della trattazione - che, al di là delle strette esigenze curative nei riguardi del paziente, si possono proporre necessità derivanti dalla vita in comunità del paziente stesso, correlate alla sua condizione di soggetto psicopatico, laddove tale condizione determini situazioni di concreto ed effettivo rischio per l'incolumità fisica dello stesso degente o di altri soggetti (ossia gli altri pazienti, il personale sanitario etc.).

In tal caso, i soggetti responsabili della struttura sanitaria, in funzione della posizione di garanzia loro assegnata dall'ordinamento, sono chiamati ad affrontare la situazione di pericolo - che spesso può determinarsi in modo repentino ed imprevedibile - salvaguardando i soggetti potenzialmente destinatari di manifestazioni di violenza fisica in loro danno ed intervenendo, all'uopo, con l'urgenza richiesta di volta in volta dal caso concreto.

Il problema dei limiti della liceità della pratica della contestazione a letto dei malati psichiatrici non può, perciò, prescindere dall'approfondimento di entrambi gli aspetti: quello, per così dire, terapeutico; e quello della sicurezza (o, come altri afferma, della disciplina) all'interno della struttura.

@L'aspetto terapeutico

La normativa di settore, pur palesando in linea di principio avversione verso ogni forma di coercizione fisica verso i pazienti in questione, non offre punti di riferimento precisi.

È ben vero che la legge 13 maggio 1978, n. 180 (meglio nota come legge Basaglia) prescrive che, solo in casi tassativamente previsti, possono essere disposti dall'autorità sanitaria i c.d. trattamenti sanitari obbligatori (t.s.o.) «nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione».

È parimenti vero che il D.P.R. 7 aprile 1994, recante «approvazione del progetto-obiettivo "tutela della salute mentale"», prescrive l'eliminazione di qualsiasi metodo di coercizione fisica.

Tuttavia, al di là delle previsioni programmatiche ed al di fuori dello specifico tema dei trattamenti sanitari obbligatori, l'unica fonte normativa che espressamente regola la materia è, ad oggi, rimasto l'art. 60 del R.D. 16 agosto 1909, n. 615 (regolamento attuativo della c.d. legge manicomiale).

Secondo tale disposizione, «nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l'autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell'istituto», con la quale dev'essere indicata «la natura e la durata del mezzo di coercizione». Tale possibilità è, invece, esclusa nelle case di cura private.

La disposizione in esame non pare potersi considerare come abrogata da altre fonti legislative successive (la legge 180/78 abroga unicamente gli artt. 1, 2, 3 e 3 bis della legge manicomiale n. 36/1904), né è stata dichiarata costituzionalmente illegittima:Page 368 di tal che essa deve considerarsi a tutt'oggi vigente1.

Circa le formalità dell'autorizzazione - che è richiesta in forma scritta - è, ovviamente, argomento di discussione l'eventualità che il rilascio della stessa avvenga bensì in condizioni di oggettiva necessità (sia essa terapeutica o di sicurezza) e fornendo indicazioni sulle modalità e sulla durata della coercizione, ma senza osservare la forma scritta: può, in specie, discutersi sull'effettiva esigibilità della forma scritta nei casi in cui, mancando uno specifico protocollo sottoscritto dai sanitari responsabili, l'autorizzazione a legare a letto un paziente in violenta crisi aggressiva venga rilasciata in forma orale.

La casistica deve, peraltro, esaminarsi in tutta la sua varietà; e dà il segno della obsolescenza dell'art. 60 del Regolamento nell'attuale quadro costituzionale ed ordinamentale: perché, se è vero che la disposizione non risulta abrogata, è parimenti vero che la «burocratizzazione» dell'autorizzazione alla contestazione (che si prescrive di rilasciare per iscritto) appare compatibile con un quadro normativo in cui la libertà personale del paziente psichiatrico poteva essere sacrificata per semplice scelta medica, ossia a prescindere da situazioni di necessità e urgenza; ma non con l'attuale assetto costituzionale, in cui non è pensabile autorizzare la contenzione di un malato psichiatrico al di fuori di esigenze immanenti e di conclamata gravità, nonché in acclarata assenza di alternative praticabili.

D'altronde, ed è questo il tema centrale da affrontare, non sembra che la normativa appena richiamata chiarisca se i limiti ed il divieto dell'uso di strumenti di coercizione fisica sui malati psichiatrici siano da intendere riferiti all'impiego di tale pratica in situazioni scriminate da esigenze sanitarie, ovvero da esigenze di sicurezza.

La questione non è di poco conto, in quanto essa...

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