Formazione e precarietà
Autore | Loffredo, Antonio |
Pagine | 111-165 |
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Capitolo Terzo
Formazione e precarietà
Sommario: 1. La frammentazione del mercato del lavoro in funzione della pr ofessionali-
tà. - 1.1 Tipologie contrattuali e formazione professionale. - 1.2 L’equivoco utilizzo
dell’elemento formativo ai fini occupazionali. - 1.3 Il perco rso verso un chiarimento
della funzione dei co ntratti formativi. - 2. Natura acontrattuale e vocazione occupa-
zionale del tirocinio formativo. - 2.1 Quando il silenzio è d’o ro: la riforma del 2011.
- 3. L’apprendistato come unico contrat to di lavoro formativo? - 3.1 L’appren-
distato “funzionalizzato” ad un interesse pubblico. - 3.2 Il contratto di mestiere con
funzione occupazionale. - 3.3 Sulla falsa questione della causa mista.
1. La frammentazione del mercato del lavoro in funzione della profes-
sionalità
Il legame tra la formazione ed il mercato del lavoro costituisce un
aspetto ineliminabile di quasi tutti i dibattiti riguardanti la politica occu-
pazionale e l’esistenza di molteplici mercati del lavoro, con proprie carat-
teristiche ed esigenze, rende necessario che la formazione professionale
sia ben calibrata non solo sui fabbisogni delle imprese ma anche sulle esi-
genze del territorio e del mercato del lavoro in cui si inserisce. La fram-
mentazione in molteplici mercati del lavoro non si è prodotta solo su base
territoriale ma anche utilizzando come discrimine la professionalità dei
lavoratori, se è vero che nel mercato del lavoro non si offrono generiche
attitudini ma professionalità1 di persone in carne e ossa. I contratti di la-
voro formativi sono stati protagonisti di questo fenomeno e costituiscono
tuttora una modalità con cui si è voluto attuare nel nostro ordinamento il
diritto al lavoro anche se, alla luce dei risultati ottenuti, più che costituire
un’attuazione dell’art. 4 si sono dimostrati funzionali alla garanzia della
libertà d’impresa contenuta nell’art. 41 della Costituzione, attraverso un
uso equivoco dell’elemento formativo che, nella scrittura e nell’interpre-
tazione delle regole2, ha dimenticato il rispetto dei principi costituzionali
posti dagli artt. 4 e 35.
1 GIUGNI G., “Qualifica, mansioni e tutela della professionalità”, in Riv. Giur. Lav.,
1973, p. 3; MENGONI L., “Tre commenti alla Critique de droit du travail di Supiot”, in Dir.
Lav. Rel. Ind., 1995, p. 476; NAPOLI M., “Contratto e rapporti di lavoro oggi”, in AA.VV., Le
ragion i del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, Giuffrè, Milano, 1995, p. 1121.
2 Sottolinea la funzione dei principi quali elementi imprescindibili per la scrittura e
l’interpretazione delle regole DWORKIN R., Taking rights seriously, Cambridge, 1977, p. 132.
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La polarizzazione della forza-lavoro e l’esistenza di almeno due diffe-
renti mercati del lavoro, uno per i lavoratori dotati di specializzazioni ri-
chieste dalle imprese e l’altro per quelli meno professionalizzati, costitui-
sce ormai una realtà sotto gli occhi di tutti3, come viene costantemente
sottolineato anche dai Rapporti OCSE sull’occupazione in Italia. Non è
azzardato sostenere che questa tendenza abbia ricevuto un forte sostegno
anche dal quadro normativo vigente e, in particolare, dalle riforme del di-
ritto del lavoro degli ultimi quindici anni.
Al contrario, il diritto del lavoro repubblicano, che si era trovato a re-
golare organizzazioni prevalentemente di tipo fordista, almeno fino alla
metà degli anni ‘80 si era caratterizzato per un impulso egualitario ed
aveva approntato una tutela che si attagliava su un prototipo di lavoratore
maschio, settentrionale, sindacalizzato e assunto a tempo pieno ed inde-
terminato da un’azienda medio-grande. Il paradigma di soggetto da tutela-
re scelto dal diritto del lavoro italiano non corrispondeva neppure allora
alla maggioranza dei prestatori, visto che, ad esempio, teneva in scarsa
considerazione le donne, i meridionali e tutti i lavoratori impiegati nelle
piccole imprese che, come si dice con una frase un po’ abusata, costitui-
scono l’ossatura economica del sistema italiano; non si può negare, però,
che il mercato del lavoro sembrava richiedere in prevalenza lavoratori a
tempo pieno ed indeterminato e quelle esigenze del mercato erano lo
specchio dell’organizzazione taylorista della produzione.
Il quadro normativo riguardante il diritto del lavoro dal 1997 fino ai
giorni nostri ha in un primo tempo permesso e successivamente addirittu-
ra favorito una certa polarizzazione delle garanzie economiche e normati-
ve previste per i diversi tipi di lavoratori subordinati effettuata anche in
base alla professionalità del lavoratore, che ha determinato una sensibile
differenza di tutele, soprattutto per chi è stato assunto dalla metà degli an-
ni ‘90 in poi, attraverso alcuni fenomeni, tra i quali vale la pena citare per
la loro importanza: a) lo spezzettamento delle aziende e la creazione di
aziende mono-specialistiche a seguito della riforma della disciplina del-
l’appalto, della somministrazione di manodopera e del trasferimento
d’azienda; b) la disciplina di alcune tipologie contrattuali in modo sempre
più precario, accettabili quasi esclusivamente da lavoratori che svolgono
prestazioni di esiguo contenuto professionale, e quindi con scarsa forza
contrattuale, o da alcuni gruppi o categorie sociali a cui sono state tradi-
zionalmente rivolte; c) l’aumento delle “causali soggettive” per la stipula-
zione di alcune tipologie contrattuali caratterizzate da minori tutele nor-
mative e retributive, peraltro utilizzabili solo da alcune categorie di datori
3 In questo senso, anche CARABELLI U., “Organizzazione del lavoro e professionalità:
una riflessione su contratto di lavoro e post-taylorismo”, in Dir. Lav. Rel. Ind., 2004, p. 84.
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di lavoro e di fatto usate prevalentemente da imprese che svolgono attività
produttive ad alta intensità di lavoro; d) l’uso della formazione nel con-
tratto di lavoro in chiave prevalentemente occupazionale, avvenuta attra-
verso la riduzione delle tutele dei lavoratori, che ha anche determinato lo
svilimento dell’incidenza della professionalità all’interno dei contratti
formativi. Questi quattro fenomeni hanno tutti inciso, in maniera più o
meno rilevante, sul rapporto tra precarietà e formazione nei mercati del
lavoro. Prendendo le mosse dall’effetto delle esternalizzazioni sulla crea-
zione di diversi mercati del lavoro basati sulla professionalità è facile no-
tare come questa situazione sia profondamente diversa rispetto a quella
che ha riguardato tutto il diritto del lavoro del ‘900, all’interno del quale
trovavano scarsissimo spazio, almeno teoricamente, le ipotesi di decen-
tramento della produzione. Una legge simbolo di quel diritto del lavoro,
che mostrava chiaramente i segni di tale approccio giuridico, è stata la l.
1369/1960, che vietava all’imprenditore di appaltare l’esecuzione di mere
prestazioni di manodopera, sanzionando tale fenomeno con la costituzio-
ne del rapporto di lavoro in capo al datore di lavoro sostanziale e non a
quello formale, in applicazione del principio secondo cui il rapporto pre-
vale sul contratto. A tal fine, il legislatore aveva posto anche il principio
della responsabilità solidale tra il datore di lavoro formale e sostanziale
per i crediti vantati dal lavoratore e quello della parità di trattamento tra i
prestatori delle due aziende, committente ed appaltatrice. Quest’ultimo
principio, a seguito dell’abrogazione dell’articolo 3 della legge 1369/1960
ti endo-aziendali e sta determinando il devastante effetto di creare due di-
versi mercati con differenti condizioni economiche e normative, uno per
le imprese committenti, con lavoratori tendenzialmente stabili e più tute-
lati, e l’altro per quelle appaltatrici, economicamente dipendenti dalle
prime, spesso operanti in settori produttivi ad alta intensità di lavoro e
basse specializzazioni, i cui lavoratori potranno essere assunti con contrat-
ti prevalentemente precari4, la cui durata potrebbe coincidere con quella
del contratto d’appalto. In tal modo si sta verificando l’effetto perverso per
cui un contratto di natura commerciale stipulato tra due imprese potrà eserci-
tare la propria influenza diretta o sulla durata iniziale o, peggio ancora, sulla
risoluzione del contratto di lavoro che intercorre tra l’azienda appaltatrice
ed il prestatore, aggirando le norme in materia di licenziamenti.
Questo tipo di esternalizzazioni, al contrario di quanto ritenevano
vecchie teorie organizzativistiche, riescono a garantire anche un generale
abbassamento dei costi di transazione attraverso la loro ripartizione con
4 SCARPELLI F. , “Esternalizzazioni e dirit to del lavoro: il lavoratore non è una mer-
ce”, in Dir. Rel. Ind., 1999, p. 351.
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