Escluso l’obbligo di traduzione gratuita della sentenza a favore dell’imputato alloglotta

AutoreGianfrancesco Caramante
Pagine639-642

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Con la decisione annotata, la Corte di cassazione è nuovamente intervenuta sulla questione relativa alla corretta interpretazione dell’art. 143 c.p.p., rinfocolando un dibattito, per la verità mai sopito, tra giurisprudenza di legittimità e dottrina.

La Corte ha stabilito che la sentenza non rientra tra gli atti per i quali, a norma del citato articolo, è previsto l’obbligo di traduzione nei confronti dell’imputato che non conosca la lingua italiana, rilevando, altresì, che il diritto di difesa dell’imputato può essere sufficientemente garantito dalla traduzione a proprie spese del dispositivo e della motivazione.

Con tale pronuncia il Supremo Collegio ha inteso prendere le distanze da una recente decisione assunta della quarta sezione penale (sent. 7 febbraio 2007, n. 4929) con la quale era stato affermato l’opposto principio.

Le argomentazioni addotte dalla Corte nella precedente statuizione si fondavano sulla considerazione che l’imputato alloglotta, non comprendendo il contenuto della sentenza redatta in italiano, non avrebbe potuto attivare i consentiti mezzi di gravame o, eventualmente, togliere validità all’impugnazione presentata dal difensore. In particolare, rilevava il collegio, l’art. 143 c.p.p. doveva essere interpretato quale norma suscettibile di applicazione estensibile a tutte le ipotesi in cui l’imputato, non potendo giovarsi dell’ausilio dell’interprete, avrebbe visto pregiudicato il proprio diritto a partecipare allo svolgimento del processo penale.

Sulla individuazione degli atti per cui sussiste l’obbligo di traduzione esistono incertezze e contrasti in dottrina e in giurisprudenza.

Invero, l’orientamento giurisprudenziale degli anni immediatamente successivi all’introduzione della disposizione di cui all’art. 143 c.p.p. è stato pressoché costante nel ritenere che il diritto all’assistenza dell’interprete non dovesse essere riferito solo all’attività svolta in udienza e quindi avesse ad oggetto la sola commutazione linguistica degli atti orali1.

Un’interpretazione così restrittiva dell’art. 143 c.p.p. si fondava sulla considerazione che, a differenza di quanto previsto dagli artt. 109, comma 2, c.p.p. e, soprattutto, 169, comma 3, c.p.p.2, l’art. 143 c.p.p. non contemplasse espressamente un obbligo di traduzione per gli atti processuali scritti. Pertanto, argo-Page 640mentando a contrario, si perveniva alla conclusione che la volontà del legislatore fosse stata quella di circoscrivere la traducibilità degli atti processuali scritti alle sole ipotesi espressamente previste nel codice3.

In particolare, la non riferibilità della garanzia prevista dall’art. 143 c.p.p. agli atti scritti andava ricercata nel fatto che, nell’ipotesi presupposta da tale articolo, l’imputato, avendo in Italia un punto di riferimento per la propria difesa (a differenza di quanto invece presuppone l’articolo 169, comma 3, c.p.p.), poteva procurarsi facilmente un traduttore o, comunque, conoscere il contenuto dell’atto attraverso l’ausilio del proprio difensore4.

Inoltre, la circostanza che il legislatore avesse espressamente previsto con l’art. 169, comma 3, c.p.p. l’obbligo di traduzione per uno specifico atto del processo, doveva ritenersi sintomatica del fatto che l’art. 143 c.p.p. non imponesse affatto la traducibilità di tutti gli atti processuali. A ragionare diversamente si sarebbe dovuti pervenire alla conclusione che la previsione dell’art. 169, comma 3, c.p.p. fosse assolutamente ridondante, dovendo essere già ricompresa nell’ipotesi prevista dall’art. 143 c.p.p.

In definitiva, la mancanza di una previsione espressa nell’art. 143 c.p.p. in ordine alla traducibilità di atti processuali scritti doveva considerarsi sintomatica di una volontà contraria del legislatore che, altrimenti, ne avrebbe fatto espressa menzione (ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit).

A segnare un netto cambiamento di direzione rispetto all’orientamento giurisprudenziale iniziale ha provveduto la Corte costituzionale (sent. 10/1993) che, intervenuta con una sentenza interpretativa di rigetto con la quale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 555, comma 3, c.p.p. nella parte in cui non prevede che il decreto di citazione a giudizio debba essere notificato all’imputato straniero, che non conosce la lingua del processo, anche nella lingua da lui compresa, e del combinato...

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