La Funzione «Emergenziale» della pena tra «Castigo» e «Premio»: spunti di riflessione sulla recente «eEmergenza Sicurezza»

AutoreUbaldo Nazzaro
Pagine227-239

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@1. Cenni introduttivi: la recente «emergenza sicurezza» e la tradizione emergenziale italiana

All'indomani dell'ingresso della Romania nell'Unione Europea, il 1º gennaio 2007, ha inizio, in Italia, un dibattito politico circa i rischi che l'apertura delle nostre frontiere ai Paesi dell'Est avrebbe comportato; i timori sono legati all'enorme flusso di cittadini neocomunitari - svincolati, ora, dalle rigide restrizioni imposte dalla legge Bossi-Fini in materia di immigrazione - registrato a cominciare dai primi mesi del 2007.

I toni della polemica tra i differenti schieramenti parlamentari sono inaspriti dalla strumentalizzazione mediatica dei soli episodi di cronaca aventi quali protagonisti in negativo i rom: la stigmatizzazione esclusiva dei reati di cui si rendono autori soggetti provenienti dall'Est europeo è funzionale alla creazione di un'opinione pubblica che vede nel fenomeno migratorio la principale causa del dilagare della criminalità.

Oggeto della discussione è, allora, il decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, recante la disciplina sulla libertà di circolazione all'interno dell'Unione Europeo, di cui si chiedono rapidi correttivi.

Il clima emergenziale ha indotto il governo Prodi all'approvazione del c.d. «pacchetto sicurezza», il 30 ottobre 2007, consistente in norme presentate come disegni di legge; le misure di espulsione dei comunitari in esso contenute sono state, quindi, riproposte attraverso il D.L. 1 novembre 2007, n. 181, e, successivamente, a seguito della sua decadenza per mancata conversione, nuove disposizioni in materia sono state provvisoriamente introdotte dal D.L. 29 dicembre 2007, n. 249, anch'esso, poi, non convertito.

Ad apportare modifiche al D.L.vo n. 30/2007 è, comunque, intervenuto il decreto legislativo 28 febbraio 2008, n. 32 (Diritto dei cittadini dell'Unione europea di circolare e soggiornare liberamente in Italia).

Un nuovo «pacchetto sicurezza» è stato di recente approvato dal governo Berlusconi, il 21 maggio 2008. I punti fondamentali riguardano l'ordine di espulsione o allontanamento dello straniero, quando questi sia condannato alla eclusione per un tempo superiore ai due anni; l'aggravante della clandestinità; la detenzione nei centri di permanenza temporanea per un limite massimo di diciotto mesi; il divieto di affitto ai clandestini; l'aggravante per i delitti commessi verso anziani o portatori di handicap; la concessione della cittadinanza italiana, in caso di matrimonio, solo dopo due anni di residenza nel territorio della Repubblica, ovvero tre dalla data delle nozze qualora il soggetto interessato risieda all'estero; l'introduzione del reato di immigrazione clandestina; l'aumento dei poteri ai sindaci e alle polizie municipali; le pene nei confronti di chi si avvalga per mendicare di un minore di anni quattordici o comunque, non imputabile e quelle contro gli autori di atti di vandalismo; la confisca dei beni ai mafiosi; l'aumento delle limitazioni per il trasferimento di danaro all'estero.

Una sostanziosa parte di tali punti è stata, quindi, inserita nel D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, nella L. 24 luglio 2008, n. 125; tra le disposizioni escluse dal decreto e rimaste nel disegno di legge vi è l'introduzione del reato di immigrazione clandestina, che più delle altre ha suscitato legittime perplessità e vivaci polemiche, in quanto avrebbe reso penalmente perseguibili un numero enorme di persone, aggravando le condizioni di sfruttamento sul lavoro degli «irregolari» e comportando, in generale, un'ulteriore precarizzazione delle condizioni di vita dei migranti.

Ancora una volta ci ritroviamo di fronte a opzioni legislative che sembrano avvalorare la predilezione per un diritto penale dell'«autore», anziché del «fatto». La tradizione ordinamentale italiana è, d'altronde, caratterizzata dall'emergenza, attraveso la decretazione d'urgenza, che espropria di fatto il Parlamento della propria funzione legiferante; frequente è, inoltre, il ricorso a norme, le quali, avendo sovente carattere eccezionale, dovrebbero essere temporanee, salvo, poi, a trovare puntuale stabilità nel nostro sistema (un esempio è offerto dall'art. 41 bis O.P., di cui più innanzi ci occuperemo).

L'iter che ha condotto all'approvazione di due distinti «pacchetti sicurezza» in meno di un anno ripropone un'ennesima stagione emergenziale, ultima tappa, per ora, di quel percorso avviato all'indomani dell'unità d'Italia - quando gli interventi legislativi d'urgenza erano volti a reprimere il fenomeno del brigantaggio - e connotante la storia del nostro sistema punitivo. Un'attenta riflessione sugli attuali squilibri sociali, la cui sola risposta è data, ancora una volta, sul piano esclusivamente penale, attraverso la L. 24 luglio 2008, n. 125, non può, in ogni caso, prescindere da una più ampia analisi delle contraddizioni esplose tra ilPage 228 1960 e il 1970, che condussero, quale sbrigativa quanto inappropriata soluzione, all'inaugurazione, a partire dal 1975, della legislazione dell'emergenza; così come l'esigenza di sottrarci a una superficiale disamina delle nuove misure di contrasto all'ingresso e alla permanenza dei cosiddetti «illegali» nel territorio dello Stato ci impone di soffermarci nella terza fase della globalizzazione economica, quando l'utilizzo delle guerre, mascherate sotto l'etichetta di «lotta al terrorismo internazionale», è strumentale alla ridefinizione di un nuovo ordine mondiale, imposto dagli organismi sovranazionali e finalizzato all'esclusione di un sempre crescente numero di cittadini, ampliando, in tal modo, a dismisura, la problematica dei fenomeni migratori.

La crisi del Welfare State che, a partire dal 1930, pone in discussione l'intero modello capitalistico occidentale, delegittimandone progressivamente i singoli ordinamenti statuali, produrrà il suo più alto momento di scontro sociale tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso 1.

L'affermarsi di democrazie sempre più autoritarie e totalitarie, come reazione alla graduale perdita di controllo dei meccanismi di regolazione dei conflitti, ha dato luogo, con la complicità della fine, in quegli anni, dell'opposizione parlamentare della sinistra istituzionale, al diffondersi di un antagonismo di classe sottratto ai tentativi di mediazione politica 2.

L'incapacità (o la mancanza di volontà) di gestire la situazione di crisi aveva, del resto, prodotto una nuova stagione di violenza, che si era andata ridefinendo, dal 1960 in poi, come «terrorismo di Stato»: obiettivo è il perseguimento, attraverso la «strategia della tensione», di una situazione di ingovernabilità tesa alla giustificazione di un intervento militare golpista - un esempio è offerto dai Paesi del Cono Sur dell'America Latina - o, quantomeno, di un ulteriore irrigidimento statale in senso autoritario.

E tra i luoghi strategici del conflitto assume centralità, tra il 1960 e il 1970, il carcere, al cui interno si va ricomponendo una vera e propria soggettività detenuta, quale momento di organizzazione e riappropriazione dei propri diritti, che pone seri problemi in termini di gestione della popolazione dei reclusi.

Il processo di ristrutturazione produttiva, in atto presumibilmente almeno dal 1963, è finalizzato, viceversa, all'annientamento dell'immagine e dell'identità delle lotte operaie 3. La riorganizzazione del lavoro si articola attraverso forme di decentramento come la terziarizzazione e la flessibilità: si realizza, in tal modo, quello che fu a suo tempo definito il passaggio della figura dell'«operaio-massa», espressione del patrimonio collettivo delle lotte di classe, a quella dell'«operaio-sociale», prodotto di un progetto politico teso all'individualizzazione e alla separazione dei lavoratori salariati - e, quindi, alla progressiva scomposizione dell'«autonomia proletaria» - funzionale alla distruzione di tale patrimonio 4.

Ed è proprio il modello/fabbrica - secondo opinione condivisa in dottrina 5 a offrire lo schema per la riproposizione del modello/carcere: in entrambi i luoghi sono, infatti, perseguiti i medesimi obiettivi di disciplina e subordinazione. Nelle strategie di repressione-controllo sono riscontrabili una sostanziale identità tra lavoro inteso come privazione del tempo e pena intesa come privazione della libertà: assistiamo, nel primo caso, all'«alienità dai/dei mezzi di produzione» del lavoratore subordinato, e, nel secondo, all'«espropriazione dal/del proprio corpo» del detenuto 6.

Non vi è da meravigliarsi, allora, se, alla stregua di quanto è stato posto in atto nei confronti della classe operaia, medesima sarà la finalità di scomposizione della soggettività detenuta attraverso il varo di una riforma penitenziaria caratterizzata dall'individualizzazione del trattamento e dalla differenziazione carceraria.

La ridefinizione di strategie repressive volte alla neutralizzazione dell'individuo come diretta conseguenza all'incapacità di fronteggiare la situazione di crisi, dapprima socio-economica, e quindi politica, comporta l'inaugurazione di una nuova stagione emergenziale, contrassegnante, a partire dal 1995, l'intero sistema punitivo italiano.

Nel medesimo anno viene, infatti, varata la legge 22 maggio 1975, n. 152 (c.d. «Reale»), caratterizzante una prima fase della legislazione dell'emergenza, identificata nel periodo compreso tra il 1974 e il 1978 e definita del «diritto speciale di polizia» 7 - propedeutica a una successiva, più prettamente improntata alla normativa eccezionale antiterroristica, attraverso l'ampliamento del novero delle fattispecie associative (si pensi all'introduzione, a opera dell'art. 3 della L. 6 febbraio 1980, n. 15, dell'art. 270 bis c.p., incriminante le associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico) e relativa altresì al piano sostanziale processual-penalistico - e avviato, sul piano esecutivo, attraverso la L. 26 luglio 1975, n. 354, quel percorso di riforma penitenziaria che vede, ancora oggi...

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