Il reato commesso in stato di dormiveglia. La tragicità di un caso giudiziario è l'occasione per dibattere sulla coscienza e volontà della condotta

AutoreFrancesco Paolo Garzone
Pagine1068-1071

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@1. Premessa. Il fatto.

Una mattina di agosto il piccolo Caietto, di appena tre anni, si avvicinava al letto del papà ancora dormiente e cercava di svegliarlo tirandogli i capelli e dandogli dei pizzicotti.

Il genitore, in stato di dormiveglia, con l'intento di allontanare da sè il bambino, gli infieriva uno schiaffetto.

Quello schiaffo, tuttavia, inferto senza alcuna violenza e sicuramente senza la - benché minima - cattiveria, determinava, per effetto di una perversa dinamica, la caduta all'indietro del piccolo ed il conseguente suo evento letale.

Tratto a giudizio per il delitto previsto e punito dall'art. 584 c.p., l'«autore» della condotta testè succintamente descritta veniva condannato, a seguito di giudizio abbreviato, dal Gup presso il Tribunale di Taranto.

Tale condanna, successivamente confermata agli effetti penali dalla Corte di assise di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, diveniva irrevocabile in seguito alla sentenza n. 42600 del 18 marzo 2005 (oggetto di queste brevi riflessioni) con cui la Suprema Corte rigettava il ricorso per cassazione proposto nell'interesse dell'imputato.

Il caso giudiziario in questione, nella sua innegabile tragicità ed estrema fatalità, induce il giurista a soffermarsi, fra l'altro, sulla rilevanza penale di quei comportamenti realizzati in condizioni di incapacità, da parte della psiche dell'agente, a signoreggiare con la propria forza i movimenti del corpo.

È indubbio, infatti, che «il fatto (oggetto della presente nota) costitui(sca) una sorta di caso limite, in cui il verificarsi dell'evento, malgrado ogni diversa volontà dei protagonisti, si pone ai confini estremi del possibile, in una zona, cioè, ove i contorni delle rispettive posizioni (autore e vittima del reato) appaiono più che consapevolmente scelti, perfidamente assegnati dalla tirannìa di un crudele ed avverso destino» 1.

@2. La coscienza e volontà della condotta tra difformi orientamenti giurisprudenziali e dottrinali.

La rarità di condotte criminose poste in essere in simili condizioni ha, evidentemente, prodotto in materia de qua una scarsa elaborazione giurisprudenziale.

In dottrina, tuttavia, non è mancato chi ha ipotizzato casi-limite e, prevalentemente nel tentativo di elaborare una convincente ed esaustiva nozione giuridica di «condotta», si è chiesto se, ad esempio, chi cada a terra svenuto e, «così facendo», cagioni la rottura di un vaso, ponga in essere una condotta umana, ovvero se debba qualificarsi tale quella di chi «agisca» sotto narcosi, o sotto ipnosi, o per un incontrollabile riflesso, o a causa di un incidente o di una forza imprevedibile ed inevitabile, esogena o endogena (epilessia, delirio, sonnambulismo o comunque crampi o costrizioni incontrollabili del proprio fisico per dolori, fratture e via dicendo) 2.

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Il riferimento normativo fondamentale alla stregua del quale rispondere ai predetti interrogativi è costituito senz'altro dall'art. 42, comma 1, c.p., ai sensi del quale: «Nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà».

Ciò che, invece, costituisce vexata quaestio iuris, è la collocazione sistematica della coscienza e volontà della condotta.

Per una prima e diffusa opinione, infatti, l'azione od omissione cosciente e volontaria dovrebbe essere ricondotta al fatto tipico, del quale rappresenterebbe l'elemento primario, costituente la base per il successivo riscontro di antigiuridicità e colpevolezza 3.

Tale orientamento, che muove da una concezione unitaria di azione, comprensiva dei coefficienti fisico e psichico 4, ergo costituita non già da qualsiasi estrinsecazione dell'energia vitale di un uomo, bensì soltanto da quella che ne rappresenti una manifestazione della sua personalità 5, ha trovato un significativo arresto giurisprudenziale nella sentenza delle Sezioni unite della Suprema Corte di cassazione del 14 giugno 1980, Felloni 6.

In tale occasione, infatti, la Suprema Corte ritenne che la coscienza e la volontà siano attributi della condotta criminosa, esprimendo le condizioni minime richieste dall'ordinamento perché un comportamento dell'uomo, modellato su un'astratta fattispecie penale, gli possa essere normalmente riferito, sia cioè «proprio» (suus) di costui.

Tale conclusione, tuttavia, appare fondatamente contrastata da altra giurisprudenza (che - come nella commentata sentenza - «riduce» la questione della sussistenza della coscienza e volontà della condotta alla «esigibilità» di un diverso comportamento), nonché da autorevole dottrina, secondo la quale, invece, la suitas non costituirebbe un requisito autonomo, attinente cioè alla condotta come tale, ma si collocherebbe nel più ampio alveo della colpevolezza 7.

La questione, essenzialmente teorica, non è priva di ricadute pratiche.

Ove, infatti, si ritenesse la coscienza e volontà dell'azione e/o omissione un necessario presupposto della condotta, la formula processuale di proscioglimento per difetto del predetto requisito dovrebbe essere «perché il fatto non sussiste»; viceversa, ove si considerasse la coscienza e volontà della condotta un necessario complemento della colpevolezza, la formula di proscioglimento dovrebbe coerentemente essere «perché il fatto non costituisce reato». Tanto con ogni ulteriore conseguenza di legge, specie sul piano della relazione tra giudicato penale ed azione civile (art. 652 c.p.p.) 8.

@@2.1. Segue. La coscienza e volontà della condotta come coefficiente di colpevolezza dell'autore della condotta.

Ad avviso dello scrivente il paradigma ricostruttivo-epistemologico cui rapportare il disposto dell'art. 42, comma 1, c.p. è senz'altro costituito dalla categoria concettuale della colpevolezza.

La soluzione contraria, invero, trova in sè stessa occasione di smentita.

Essa, infatti, nel ritenere che la formula «coscienza e volontà» dell'azione richiami dati diversi a seconda che l'azione acceda ad un reato doloso ovvero colposo, perviene alla conclusione che: «soltanto sul terreno del reato commissivo doloso... l'azione è sempre caratterizzata dalla partecipazione effettiva della coscienza e volontà», sì che «azione cosciente e volontaria e azione dolosa finiscono» sostanzialmente «col coincidere», mentre «nei delitti colposi tale requisito si identifica ora con un dato psicologico (colpa c.d. cosciente), ora con un dato normativo (colpa c.d. incosciente)», sì che «l'azione si considera "voluta" anche quando risulta soltanto "dominabile dal volere", ovvero evitabile mediante l'attivazione dei normali poteri di arresto e di impulso della volontà» 9.

In altri termini, questa stessa dottrina, nel ritenere che la formula «coscienza e volontà» della condotta esprima comunque un coefficiente psicologico, finisce implicitamente per collocare il predetto requisito nell'ambito della colpevolezza (id est, rimproverabilità soggettiva) dell'agente piuttosto che della tipicità (id est, corrispondenza della fattispecie concreta a quella astrattamente prevista dalla legge) del fatto di reato.

La ricostruzione dogmatica della coscienza e volontà dell'azione quale componente primaria della colpevolezza dell'individuo, inoltre, ha il merito di riuscire meglio ad esprimere la rilevanza costituzionale del relativo accertamento giudiziale.

Infatti, come la Corte costituzionale ha ormai definitivamente chiarito (sentt. nn. 364/1988 e 1085/1988), l'imputazione subiettiva del fatto criminoso può considerarsi veramente conforme al principio di «personalità» della responsabilità penale di cui all'art. 27, comma 1, Cost. se il fatto sia - quantomeno - attribuibile all'autore, ossia suus, da sè dominabile psichicamente, oltre che naturalisticamente appartenentegli.

Inoltre, la sanzione penale di comportamenti sottratti alla signorìa dell'autore materiale si porrebbe in contrasto anche con il finalismo rieducativo della pena...

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