L’art. 571 C.P. e il discusso problema dei limiti dello jus corrigendi

AutoreCristina Colombo
Pagine647-651

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@1. Abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti in famiglia

– Gli eccessi disciplinari1 e i maltrattamenti in famiglia danno luogo a due incriminazioni, precisamente quelle disposte dagli artt. 571, 572 c.p., che frequentemente vengono abbinate perché hanno punti di contatto e si integrano a vicenda. Tuttavia – come vedremo – si devono distinguere le due fattispecie avendo riguardo principalmente alla qualità del mezzo correttivo o disciplinare impiegato, all’elemento soggettivo e alle modalità della condotta.

Pertanto, si configurano i maltrattamenti se il mezzo correttivo o disciplinare impiegato non è un mezzo lecito, se diversamente il mezzo è lecito, occorre distinguere: se l’abuso di tale mezzo è sorretto esclusivamente sull’animus corrigendi ricorre il delitto ex art. 571 c.p., se invece l’abuso del mezzo lecito è accompagnato dal «dolo» di maltrattare (eventualmente in aggiunta all’animus corrigendi) ricorre il delitto ex art. 572 c.p.

Il carattere distintivo tra le incriminazioni previste dall’art. 572 e dall’art. 571 del c.p. consiste, quindi, nel fatto che la prima è punibile a titolo di dolo generico ed implica l’uso di mezzi o modi di trattamento sempre e di per sé illeciti, mentre la seconda presuppone l’eccesso nell’uso di mezzi giuridicamente leciti che, tramutando l’uso in abuso, lo fa diventare illecito. Infine, se si volesse analizzare la condotta e il rapporto tra soggetto attivo e passivo si dovrebbe evidenziare come la fattispecie prevista dall’art. 571 c.p. riguarda un unico episodio criminoso individuato da un uso eccessivo di modalità educative lecite e punito solo se causa il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, mentre l’art. 572 c.p. prevede non un fatto2, ma una serie episodica delittuosa di violenze e intimidazioni collegate tra loro da un comportamento abituale3.

@2. In particolare l’art. 571 c.p.

– Ora, occupandoci in modo specifico dell’art. 571 c.p., vediamo come la norma in oggetto, una delle più discusse del nostro ordinamento, abbia trovato una propria giustificazione (d’esistere), soprattutto in passato.

Volendo fornire un quadro evolutivo dell’istituto, è necessario risalire addirittura allo Statuto di Ceneda [1339] – o a quello di Adria [1442] e di Lucca [1536] – e considerare che di questa concezione, chiaramente di stampo medioevale, la norma ne è rimasta intrisa per secoli. E ancora oggi è incredibilmente pregna di quei concetti – teoricamente superati dai vari interventi legislativi – che vedevano la morte, inflitta dal genitore o dall’educatore, molto meno grave dell’omicidio volontario e di quello preterintenzionale. Pertanto, se attraverso una siffatta norma il legislatore del 1930 intendeva tutelare la famiglia, il risultato ottenuto è stato quello di riaffermare una concezione del gruppo familiare ormai lontana.

Attualmente la concreta applicazione della norma va diminuendo man mano che si riduce l’area di legittimità dei c.d. mezzi di correzione: considerata la variazione delle situazioni sociali e sociologiche, si è giunti ad un ambito di configurabilità limitato, tanto che vi è chi propone l’abolizione della fattispecie o comunque la restrizione del suo ambito di operatività (suffragato anche dalla posizione che la Corte di cassazione ha già assunto con la sentenza 18 marzo 1996).

De iure condendo «si auspica che il reato sia abrogato a favore di una esatta applicazione di tutte quelle fattispecie penali già esistenti ed in grado di salvaguardare l’apparato psichico e fisico del minore. Gli schiaffi, le percosse, i rimproveri umilianti non possono essere definiti correttivi, né tanto meno educativi. Ove il reato de quo fosse eliminato, quelle condotte sarebbero sussunte sotto gli articoli che prevedono le percosse, le lesioni, l’ingiuria...»4.

Oltre alle considerazioni sulla opportunità o meno di una tale fattispecie, è utile, vistane in ogni caso l’attuale presenza nel nostro codice, un esame che possa evidenziarne gli elementi costitutivi e caratterizzanti. Per quanto concerne l’oggettività giuridica, il reato in oggetto, anche se inserito tra i delitti contro la famiglia, Capo IV dei delitti contro l’assistenza familiare, ha una applicazione assai ampia, che va molto al di là della cerchia familiare, perché comprende non solo i figli soggetti alla potestà dei genitori (legittimi, illegittimi, adottivi o affiliati) e le persone sottoposte a tutela, ma anche i ragazzi affidati per ragioni di educazione, di istruzione o di vigilanza; i bambini dati a balia; le per-Page 648sone ricoverate per motivi di cura o di custodia in ospedali; gli apprendisti collocati presso artigiani o imprese per l’esercizio di professioni o arti ed anche tutte le altre persone che sono sottoposte a qualsiasi autorità pubblica o privata che conferisca poteri disciplinari.

Pertanto, il presupposto del reato in esame è un «rapporto disciplinare» fra il soggetto passivo e il soggetto attivo.

@3. I soggetti attivi

– Autori del reato possono essere solo le persone legittimate ad esercitare mezzi di correzione o di disciplina per ragioni di autorità o su soggetti loro affidati per ragione di educazione, istruzione, cura, disciplina o custodia, o in relazione ad un esercizio di una professione o di un’arte.

L’identificazione di tali soggetti comporta problemi: non ci sono dubbi – circa la qualità di soggetti attivi – per i genitori nei riguardi dei figli minori sui quali hanno autorità (figli legittimi, naturali, riconosciuti, adottivi, affiliati e anche per quelli non riconosciuti se sussiste il rapporto autoritativo), né per i soggetti succeduti ai genitori o sostituitisi ad essi a causa di un’impossibilità diretta (da parte dei genitori) di esercizio dell’autorità. Soggetti attivi possono considerarsi anche i maestri nei confronti degli allievi; i datori di lavoro nei confronti degli apprendisti, i medici o infermieri nei confronti dei ricoverati, ecc.5. Per la configurabilità del reato previsto dall’art. 571 c.p. è necessario che l’azione posta in essere dal soggetto attivo trascenda i limiti dell’uso di un potere correttivo o disciplinare effettivamente spettante al medesimo soggetto nei confronti della persona offesa. In particolare, poiché in materia di rapporto di lavoro subordinato è assolutamente esclusa per l’imprenditore la possibilità di usare un qualunque mezzo di violenza fisica sulla persona del prestatore di lavoro, le percosse o le lesioni inferte dal primo al secondo, sia pure con l’intenzione di correggere, non possono considerarsi ricomprese nella previsione del citato art. 571 c.p. e debbono essere punite, secondo i casi, ai sensi dell’art. 581 o dell’art. 582 c.p.

@4. L’elemento soggettivo

– Il delitto in esame si consuma col realizzarsi del fatto che costituisce l’abuso – nel senso indicato – sempre che ne derivi il pericolo (probabilità e non semplice possibilità) di una malattia nel corpo e nella mente6. Intendendo per malattia, secondo una definizione della scienza medica, un processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determina una apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo.

Il dolo consiste nella coscienza e volontà di usare il mezzo di correzione o di disciplina, sapendo che si tratta di abuso, occorre, cioè, che il soggetto attivo abbia la volontà di compiere il fatto dal quale deriva l’evento dannoso non voluto al solo fine di esercitare una potestà disciplinare legittima.

L’evento dannoso o pericoloso non deve essere, comunque, voluto dall’agente perché se voluto rimarrebbe escluso il fine esclusivamente disciplinare e perciò il fatto costituirebbe un delitto contro la persona. Il...

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