Diritto vivente

AutoreEligio Resta
Occupazione dell'autore– Professore ordinario di Filosofia del Diritto all’Università di Roma Tre. È nella direzione di “Politica e diritto” e di “Sociologia del diritto”.
Pagine73-83

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Le pagine che seguono costituiscono un tentativo di rileggere la formula “diritto vivente” che è oggetto del nostro incontro. Vi sono infatti molti strati di senso che emergono quando la guardiamo più da vicino. Credo che si tratti di una sonda potente ed effi cace per vedere quello che accade all’interno dei nostri sistemi giuridici, a patto però che non se faccia un uso puramente evocativo. Nelle ricche introduzioni di A. Mariani Marini e di Guido Alpa questa consapevolezza è presente e il loro richiamo all’etica professionale mi sembra quanto mai puntuale. Traccerò alcune linee di lettura del diritto vivente interrogandomi su che cosa sia “vivente” nel diritto vivente, suggerendo un breve e incompleto lessico.

  1. La vita del diritto

A effi cacia differita, la formula diritto vivente ha cominciato a riscuotere un certo successo. Si è dovuto attendere più di qualche decennio perché se ne riparlasse e ciò, forse, è dovuto al fatto che si è aspettato di consumare il dibattito, vero, ma datato, tra formalisti e anti-formalisti: dibattito vero ma non l’unico. Si tratta di una delle tante discussioni che la cultura giuridica ha coltivato con caparbio accanimento lavorando intorno alle numerose dicotomie con le quali il diritto si era presentato. Ed è noto che le dicotomie spesso hanno attraversato le questioni scientifi che semplifi cando in schieramenti binari una enorme complessità analitica.

Il diritto non solo non è rimasto immune, ma ha dato il suo signifi cativo contributo ai giochi ermeneutici binari; si pensi alla contrapposizione tra diritto naturale e diritto positivo, giusnaturalismo e positivismo, diritto e giustizia, legge e interpretazione, imperativismo e diritto libero, diritto legislativo e giurisprudenziale, creazione e scoperta della norma, fatto e valore. Anzi, prima o poi, bisognerebbe stilare un accurato elenco delle strutture dicotomiche che riposano sotto la superfi cie dei dibattiti per comprendere alcuni aspetti signifi cativi del linguaggio giuridico.

Il sospetto è che, dietro l’apparente lavoro ermeneutico, la forma dicotomica lavori attraverso i noti processi di identità e differenza che nelle pratiche sociali caratterizzano la “vita” dei sistemi. Ma si tratta soltanto di un’ipotesi buttata là, suggerita da questa discussione, e che dovrà essere ripresa con ben altri approfondimenti.

Ora, superate le secche del dibattito tra formalisti e antiformalisti, che ha segnato la semantica infl uente della cultura giuridica nella prima metà del secoloPage 74scorso, il “diritto vivente” è tornato ad essere una categoria presente e signifi cativa. Forse il successo può essere imputato alla formulazione “calda” del suo lessico. La vita del diritto vivente ci accosta ad un “corpo” attraversato più da passioni calde che non racchiuso dentro contenitori freddi. Il linguaggio del resto non è mai per caso e l’uso della formula corpo del diritto è densa di signifi cati che si sono sempre riproposti fi n dall’esperienza del mondo antico dove la grande codifi cazione si racchiudeva in un corpus iuris.

Chi volesse scavare nel gioco metaforico del corpo dovrebbe ripartire dalle note pagine vichiane della Scienza nuova, opportunamente riprese dal bel libro di A. Hyde, Bodies of Law. Il corpo vivente del diritto rimane immagine metaforica linguisticamente più attraente della sua riduzione metonimica, in cui il corpo è soltanto contenitore. Così almeno lo intende il versante formalistico che porta alle estreme conseguenze la deriva positivistica instaurata dal moderno. Paradossalmente, si potrebbe aggiungere, il diritto vivente si avvicina più a quell’idea di corpus che l’esperienza delle grandi codifi cazioni antiche considerava sì contenitore, ma animato dalle tante forze della tradizione, che non al corpo del diritto positivo che la tradizione continentale moderna ha consegnato ai suoi “ordinamenti”.

La fortuna della formula, dunque, va cercata, per il tempo in cui si è proposta, nella reazione al formalismo da una parte, e all’imperativismo riemergente dall’altra. Ma questo non spiega ancora la fortuna attuale che è tutta da cercare nel luogo e nel tempo in cui la semantica si è liberata dalle secche della dicotomia formalismo/antiformalismo. Ha ragione infatti P. Grossi quando pone l’accento su quella silenziosa trasformazione che conduce «dal primato della legge al primato della prassi» (Il diritto tra norma e applicazione, Prolusione a S.S.P.F.), allargando l’orizzonte ristretto del diritto prodotto esclusivamente dallo Stato. Il “diritto vivente”, che guarda «alla vita della norma nel tempo e nello spazio» è il risultato di una serie di processi grazie ai quali si passa dalla mera esegesi all’ermeneutica del testo in cui interpretazione e applicazione hanno un ruolo determinante. In tali processi contano molte cose, che vanno dall’idea di Costituzione materiale, all’organizzazione concreta dei ceti professionali, alla cultura giuridica, ai mutamenti esterni (esogeni) che i sistemi sociali ed economici impongono. Tutti contribuiscono a smantellare il modello imperativistico e a fornire una dimensione applicativa molto forte. La “prassi” è allora termine più vicino alla tradizione, appunto, della fi losofi a della prassi che è anche, come è noto, un progetto ermeneutico.

Su questo cercheremo di avanzare alcune ipotesi.

@2. Empsychon dikaion

Prima che Cicerone traducesse defi nitivamente dikaion con ius, la tradizione aristotelica parlava di un’idea del giusto, consegnata alle leggi, come empsychon (Etica nicomachea, 1132, 20). La psyché del diritto va intesa letteralmente come anima (di un corpo) e sarà la tradizione epicurea che metterà in for-Page 75ma l’idea dell’incorporazione dell’anima: la nota lirica di Adriano ci racconta di un’animula che è hospes comesque corporis. L’anima che è ospite e nello stesso tempo compagna del corpo, contenuta nel corpo, ma nello stesso tempo esterna tanto da essere sua compagna, anticipa tutta la grande tradizione moderna del body/mind problem, che, come è noto, ha scandito tutte le tappe della soggettività moderna e che oggi fa da sfondo ai grandi temi della bioetica.

La doppia natura dell’anima e del suo corpo (interna esterna, determinante determinata, cogitans cogitata, causans causata ecc.) è riversata interamente nell’idea di dikaion e di ius (L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano 1996, p. 143).

Così, quando si traduce correttamente lo empsychon dikaion con diritto vivente, non si forza il signifi cato della formula; si restituisce quella stessa formula al suo signifi cato originario, ma ci si riferisce ad un’altra semantica, infl uente, ma diversa. La vita animata del corpo del diritto vive di pratiche, di sentimenti, di passioni etiche che vivifi cano il testo scritto della legge. Narra dell’origine della legge, della sapienza (phronesis) che una tradizione, e non soltanto i suoi giuristi, ha saputo consegnare ad un testo, a parole capaci di evocare. Quello che le parole raccontano e contengono è una vita complessa, “animata” nelle sue combinazioni di interessi e passioni, sentimenti e strategie, stabilità e incertezze, rischi e calcolabilità, scelte e destini.

Le parole della legge non raccontano di retorica né praticano enfaticamente saperi. Leggerei così quel diritto vivente, facendo leva sul carattere di quella tradizione senza tempo che gioca sull’eternità della tradizione, che mette insieme il passato e il futuro, che coltiva e mette al riparo la sovranità; deo auctore si legge nell’incipit della Costitutio Tanta che fa da sfondo alla grande compilazione antica.

Leggerla in questa maniera signifi ca mettere in ombra l’idea “antropomorfi ca”...

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