Il diritto positivo ovvero l'ordine giuridico concreto

AutoreTrombetta, Angela
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CAPITOLO TERZO

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SOMMARIO: 1. L’uguaglianza consuetudine-legge: nascita di un paradosso? - 2.

L’universale e il particolare. Il diritto tra filosofia e storia. - 3. La formazione del diritto positivo. - 4. La scienza: convalida e critica del diritto positivo.


1. Luguaglianza consuetudine-legge: nascita di un paradosso?

Abbiamo visto come la fisionomia della scienza giuridica nel System appaia più definita e nello stesso tempo meno aggressiva nello svolgimento del suo ruolo di quanto apparisse nel Beruf e abbiamo visto anche come si presenti con sfumature diverse il ruolo assegnato al legislatore e di conseguenza alla legge nella formazione e identificazione del diritto positivo. Non solo. È emerso dall’analisi come assuma sfumature diverse anche il modo di intendere la consuetudine e quindi il rapporto che s’instaura tra consuetudine, legge e diritto scientifico.

Ora sono proprio queste sfumature, accennate e pur tuttavia rilevanti, che ci inducono a porre ulteriori quesiti circa l’idea stessa di diritto: a chiederci, in particolare, se l’idea di un diritto positivo da contrapporre, in tutta la sua pregnanza semantica-concettuale, al diritto naturale si sia sviluppata nel tempo come risultato dei suoi studi storico-esegetici o sia il frutto del deciso e aprioristico rifiuto di una concezione astratta e universalistica del diritto come qualcosa di perfetto e uguale in ogni luogo, un diritto la cui vita si realizza solo in

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un mondo iperuranio senza alcun contatto con il mondo concreto dei fatti1.

Per poter affrontare tale questione, dobbiamo innanzi tutto tornare a considerare il rapporto consuetudine-legge e il valore assegnato all’una e all’altra nella formazione del diritto positivo.

È interessante esaminare come nel System, rispetto al Beruf, si sia delineata la necessità di considerare la consuetudine non a mo’ di origine del diritto positivo, ma alla stregua di “indizio della sua esistenza” e di ridefinire, quindi, la sua funzione in termini di “forma”, in cui si manifesta il diritto e dare, nello stesso tempo, il giusto senso a quelle opinioni erronee che ne fanno, invece, la “causa originaria”2.

Fondamentale, ai fini della formazione del diritto positivo, è la coscienza comune del popolo. La sua rilevanza risulta proprio dalla distinzione che Savigny stesso pone tra coscienza comune del popolo, coscienza sociale – fondamento e realtà di ogni diritto positivo e di certi principi che in esso vivono –, e la consuetu-dine. Al fine di comprendere (e quindi superare) l’erronea opinione di coloro che ritengono la consuetudine fondamento del

1Nelle prime pagine del Beruf, nel sottolineare il ruolo del diritto naturale rispetto alle due concezioni che richiedevano un codice – l’una, che avendo illimita-te aspettative verso l’epoca presente, si credeva destinata a niente di meno che “alla realizzazione della perfezione assoluta”, l’altra che vedeva nella legge l’unica fonte normativa per cui la richiesta di un codice completo sembrava la soluzione più idonea per superare qualsiasi richiamo alla consuetudine –, Savigny scrive: “ambedue si sono contrapposte ostilmente su vari punti, ma ancor più spesso hanno convissuto pacificamente. Spesso ha fatto da elemento mediatore la convinzione che vi sia un diritto pratico naturale o razionale, una legislazione ideale valida per tutti i tempi e per tutti i casi, e che basti scoprirla per perfezionare definitivamente il diritto positivo” (Savigny, Vocazione, p. 97).

2Savigny, Sistema, I, pp. 59, 63, 183. Esplicitamente afferma, a proposito di uno dei requisiti richiesti dai moderni perché gli atti siano capaci di originare un diritto consuetudinario (ovvero che gli atti non si fondino su di un errore), che non vede alcuna contraddizione tra l’idea che gli atti non debbano fondarsi su di un errore e il requisito richiesto per il primo atto, ossia la necessitatis opinio dal mo-mento che “la regola di diritto per mezzo della consuetudine si manifesta soltanto, non si origina, e per conseguenza, fin dal primo atto verificabile, poteva e doveva esistere la necessitatis opinio, senza nessun errore” (pp. 188-189).

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diritto positivo, Savigny afferma che, “se per altro si pone mente al vero fondamento di ogni diritto positivo, e ai certi principi di esso, si trova essere in quella opinione scambiata addirittura il vero rapporto di causa e di effetto. Quel fondamento ha la sua esistenza e la sua realtà nella coscienza generale del popolo. Questa esistenza è invisibile: con qual mezzo dunque potremo noi riconoscerla? La riconosciamo quando si manifesta in atti esterni, quando si estrinseca nell’uso, nel costume, nella consuetudine. Dall’uniformità degli atti continui e ripetuti noi riconosciamo la sua comune radice nella credenza del popolo, il che è opposto al semplice caso”3.

La consuetudine deriva dalle convinzioni giuridiche – valori profondi, principi –, che sono alla base della convivenza di un popolo; essa infatti – come aveva affermato Puchta – “serve di specchio nel quale egli riconosce se stesso”4.

“La consuetudine è, dunque, l’indizio del diritto positivo non già la sua causa originaria”5. L’affermazione è categorica, tuttavia non resta isolata nella sua categoricità. Savigny, come sappiamo, è sempre alla ricerca della verità, ma non per questo tralascia di considerare le teorie che, pur mancando il segno, potrebbero nascondere una “verità relativa”6. In effetti, “anche quell’errore, che fa della consuetudine la causa originaria contiene un elemento di verità, che bisogna però ridurre al suo giusto valore. Si danno infatti, oltre a quei principi del diritto positivo generalmente riconosciuti dalla coscienza popolare e incontrasta-

3Savigny, Sistema, I, p. 60.

4È lo stesso Savigny(Sistema, p. 60 nota a) che cita e riprende l’espressione di Puchta.

5Savigny, Sistema, I, p. 60. Nel Beruf (Vocazione, p. 101), aveva affermato in modo più sfumato: “La sostanza di questa concezione è dunque che ogni diritto ha la sua origine in quello che l’uso corrente con qualche inesattezza chiama diritto consuetudinario, vale a dire che il diritto è creato prima dai costumi e dalle credenze popolari, e poi dalla giurisprudenza, che è sempre opera dunque di forze interiori che agiscono silenziosamente, e non dell’arbitrio di un legislatore”.

6Sulla rilevanza della verità, anche di quella relativa, come valore euristico che conduce verso l’idealismo oggettivo si veda Rückert, Lacune palesi, pp. 514 ss, il cui pensiero è stato esaminato in note 96 e 103, cap. I e nota 38, cap. III.

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ti, anche parecchie regole particolari, le quali hanno un’esistenza meno sicuramente determinata: queste possono stabilirsi per mezzo dell’uso ripetuto, che le rende più chiare e certe nella coscienza del popolo”7. Tali sono le regole che si riferiscono alla “determinazione di un numero”, per cui è dato “un grande spazio libero all’arbitrio”. Tali sono altresì le regole “che hanno per oggetto soltanto la forma esterna di un negozio giuridico”. In questi casi è possibile che dette regole si ripetano e acquistino autorità “per noi stessi, ogni qual volta in seguito se ne richieda l’applicazione. Qui agisce infatti la legge della continuità delle umane opinioni, degli atti e delle circostanze: legge che esercita grande influenza anche in molti istituti giuridici”8.

La ripetizione di atti singoli, connesso al semplice trascorrere del tempo, non è sufficiente a trasformare in una regola che si senta obbligatoria il comportamento individuale; è necessario che vi sia nella comunità la persuasione della giuridicità dell’atto: è la consapevolezza che tutti agiscono “col sentimento della necessità e legittimità del loro procedere” – ad es. dall’occultazione risulterebbe chiara l’assenza della persuasione –, che trasforma quel senso soggettivo in norma oggettiva9.

Nella consuetudine, sia come indizio del diritto positivo, sia come “causa concorrente della sua origine” (il che può accadere tutt’al più episodicamente), si rivelano fecondi ed efficaci due tipi di atti: “le forme simboliche” dei negozi giuridici e “i pronunciati

7Savigny, Sistema, I, p. 60. Qualche rigo più giù specifica meglio il suo pen-siero: “Il ritenere che la consuetudine reagisca sul diritto stesso non può menomare il valore di questo, se non quando si figurino gli atti ripetuti come irreflessi e determinati da casuali estrinseche circostanze: ma, se invece questi si considerano come riflessi e prodotti dall’energia dello spirito, allora la dignità del diritto non è offesa da questa origine. Sebbene dunque il nome di diritto consuetudinario possa esser così chiarito sotto due aspetti ed in certo modo giustificato; tuttavia, è desiderabile un uso meno esclusivo di esso poiché porta con sé una gran parte di equivoci, che da gran tempo vi si sono sopra accumulati” (p. 61).

8Savigny, Sistema, I, p. 61.

9Savigny, Sistema, I, p. 192. Significato che viene ribadito nell’Appendice II del primo volume “L. 2, c. Quae sit longa consuetudo (8. 53 [52]), pp. 417-425, in particolare p. 423 nota o.

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dei tribunali formati dal popolo”. Le prime rappresentano visibilmente il carattere degli istituti giuridici nel loro complesso organico; i secondi, “occasionati dalla contraddizione di opposte pretese, debbono per il loro fine comprendere e definire nettamente i limiti del rapporto giuridico”10.

Abbiamo già esaminato nel primo capitolo, la rilevanza delle forme simboliche ai fini dell’individuazione del concetto di un istituto giuridico. Ora è necessario considerare ed analizzare il...

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