Diritto di critica e discriminazione sessuale

AutoreFrancesca Buraschi
Pagine864-866

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@1. Breve sintesi del fatto

Con la decisione in esame, la Cassazione ha ritenuto oggettivamente diffamatoria la frase “sarebbe meglio una gestione al maschile”, pronunciata da un sindacalista della CISL nei confronti della direttrice dell’istituto penitenziario di Arienzo. La stessa dichiarazione, poi ripresa dal giornalista di un quotidiano locale nel titolo “Carcere, per dirigerlo serve un uomo”, è stata giudicata dal Supremo Collegio come un suggerimento assolutamente gratuito, sganciato da ogni dato gestionale e riferito al solo fatto che la direttrice fosse donna. Da qui l’insussistenza dell’invocata scriminante dell’esercizio di critica sindacale che, di fatto, non può esaurirsi in una valutazione ancorata al mero dato biologico dell’appartenenza ad un sesso piuttosto che ad un altro.

@2. una presa di posizione contro il maschilismo

Da alcuni anni a questa parte, la Cassazione - a dispetto della sua composizione esclusivamente maschile - ha dimostrato di non condividere affatto certi atteggiamenti maschilisti, diretti a criticare le donne solo perché tali. Per questo, tutte quelle espressioni che pretendono di determinare il valore di una donna in termini esclusivamente sessuali sarebbero diffamatorie, in quanto lesive della dignità della persona, e non lascerebbero alcun margine di operatività al diritto di critica. Il limite all’esercizio di tale diritto, infatti, deve intendersi superato ogni volta in cui il dichiarante trascenda ad attacchi personali, diretti a colpire su un piano individuale la figura morale del soggetto criticato, senza alcuna finalità di pubblico interesse1. Inoltre, ciò che determina l’abuso del diritto di critica è la gratuità delle espressioni utilizzate, non pertinenti ai temi in discussione, nonché l’impiego del c.d. argumentum ad hominem, inteso a screditare l’avversario mediante l’evocazione di una sua pretesa indegnità o inadeguatezza personale (in questo caso l’appartenenza al sesso femminile), piuttosto che a criticarne i comportamenti e le azioni2.

Una prima presa di posizione in questo senso si è avuta con riferimento al caso di una nota parlamentare, ex presentatrice televisiva, le cui foto osé erano state pubblicate assieme ad un commento che faceva intendere, più o meno esplicitamente, che le sole effettive qualità della presentatrice erano quelle visibili al di sotto delle sue gonne. In quel caso, a nulla valsero i tentativi del giornalista di trincerarsi dietro al diritto di cronaca e di satira politica. In tutta risposta, il Supremo Collegio affermò che «sarebbe un ben strano concetto di democrazia quello che autorizzasse a considerare esercizio del diritto di cronaca sbirciare furtivamente tra le gambe delle donne in politica»3, né potrebbe «essere considerato esercizio di satira un banale insulto fondato su luoghi comuni e privo di qualsiasi aggancio con la reale condotta della persona criticata»4. Al contrario, l’impiego di quelle fotografie e il relativo commento dovevano essere intese come «espressione di un maschilismo becero e ormai fuori luogo»5, che pretendeva di valutare le capacità politiche della candidata esclusivamente in termini sessuali.

A distanza di qualche anno, la Cassazione fu interessata da un altro caso simile: un avvocato, nel redigere una comparsa di risposta per una controversia civile, si era rivolto alla controparte rinfacciandole “farneticazioni uterine” ed accusandola di avere una “natura lewinskyana”. Con una motivazione stringata ma incisiva, il Supremo Collegio ritenne sussistente il delitto di diffamazione, osservando che la prima espressione era «frutto di un retaggio maschilista e gravemente offensiva»6, mentre la seconda era fortemente lesiva della reputazione personale. Anche in questo caso, i giudici di legittimità avevano ravvisato nelle dichiarazioni dell’imputato nient’altro che attacchi personali gratuiti, scollegati da qualsivoglia condotta della persona criticata e diretti a colpirla solo ed esclusivamente in quanto donna.

Lo stesso orientamento “antimaschilista” si ritrova nella sentenza in commento, che ha definito la critica mossa alla direttrice di un carcere oggettivamente diffamatoria e lesiva della dignità personale. Anche in questo caso, la valutazione espressa dall’agente è apparsa del tutto gratuita, in quanto slegata dal riferimento a qualsivoglia condotta posta in essere dalla persona criticata. Alla direttrice non sono state contestate eventuali negligenze o scorrettezze nella gestione dell’istituto penitenziario, ma le è stato rinfacciato unicamente il fatto di essere donna: condizione che, ad avviso del dichiarante, la renderebbe inadeguata a dirigere un istituto penitenziario. Secondo la Cassazione...

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