Dipendenti pubblici e processo penale: ancora una volta la consulta non soddisfa le esigenze degli enti amministrativi

AutoreLuca Cremonesi
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@1. La sentenza emessa il 3 maggio 2002, n. 145.

La L. 27 marzo 2001 n. 97 si è preoccupata di disciplinare interamente i rapporti che possono nascere tra il processo penale e la persona impiegata presso un ente amministrativo. Vengono regolamentate, quindi, le posizioni non solo di coloro che sono dipendenti pubblici in senso stretto, come quelli dello Stato, delle Regioni e degli enti locali, ma anche dei soggetti che prestano attività presso le amministrazioni «speciali» o presso gli enti pubblici economici o presso persone giuridiche private con prevalente partecipazione pubblica. Il legislatore ha così voluto impedire che l'applicazione della normativa del codice civile o la trasformazione «formale» dell'ente da pubblico a privato potesse comportare un vantaggio per gli individui che vi lavorano, dal momento che svolgono le stesse funzioni o i medesimi servizi delle altre amministrazioni 1.

È da condividere la decisione espressa dalla Consulta nella parte in cui dichiara la illegittimità dell'art. 4, comma 2, L. 27 marzo 2001 n. 97 che regolamentava la durata dei termini di sospensione dal lavoro per il dipendente pubblico, facendoli coincidere con quelli della prescrizione, ogni volta che veniva condannato con sentenza non definitiva per il reato di peculato, di corruzione, di concussione o di collusione militare. È stata immediatamente risolta dal supremo garante della Costituzione una incongruenza che l'ordinamento giuridico non poteva accettare, perché la cessazione temporanea dal pubblico impiego risultava collegata al verificarsi di un evento processuale che faceva venire meno qualsiasi esigenza cautelare solamente con l'estinzione del reato. Veniva, pertanto, a coincidere la lun ghezza dei termini con quella rappresentata dalla sentenza di proscioglimento o di assoluzione. Doveva essere svincolata la durata del provvedimento amministrativo da quello del processo penale, in quanto bisognava contenerla entro determinati limiti, non potendo gravare più del dovuto sui diritti che provvisoriamente comprime. Per tali ragioni, contrastava con il principio di ragionevolezza e con il principio di proporzionalità indicati dall'art. 3 Cost. Con la sentenza del 3 maggio 2002 n. 145 i tempi per «congelare» un individuo dalle sue funzioni professionali sono stati ricondotti ad un massimo di cinque anni, avendo interpretato come clausola generale la normativa indicata dall'art. 9 comma 2 L. 7 febbraio 1990 n. 19, con rubrica Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti.

Una ulteriore ragione che avrebbe potuto essere addotta dalla Consulta ed utilizzata nella motivazione per dichiarare la incostituzionalità della disposizione legislativa era la contraddizione esistente tra quanto indicato dall'art. 4 comma 2 L. 27 marzo 2001 n. 97 e quanto previsto dall'art. 3 L. 27 marzo 2001 n. 97. Quest'ultima norma, per la sospensione del dipendente a differenza della prima che presupponeva una sentenza di condanna non definitiva, richiede il semplice rinvio a giudizio. Si indica, inoltre, che l'estinzione immediata del provvedimento consegue ognivolta che viene pronunciata una sentenza di assoluzione oPage 375 quando siano decorsi cinque anni dalla emissione della misura cautelare, sempre che non sia nel frattempo sopraggiunta una sentenza irrevocabile. Di conseguenza, i tempi per la definizione del provvedimento cautelare sono diversi e non sono sovrapponibili con quelli indicati per la decorrenza della prescrizione. Se non sopraggiunge l'accertamento definitivo entro cinque anni la persona deve essere reintegrata nel posto di lavoro. Invece, l'art. 4 comma 2 L. 27 marzo 2001 n. 97 prevedeva un ulteriore prolungamento della misura amministrativa, quando venivano pronunciate sentenze non definitive che finivano con il dilatare la lunghezza della sospensione dal pubblico impiego, perché costituivano eventi interruttivi della prescrizione (art. 160 comma 3 c.p.). Si vanificava, in questo modo, la durata dei cinque anni calcolati dall'art. 3 L. 27 marzo 2001 n. 97. Esisteva, inoltre, uno «spirito» differente tra le due disposizioni normative. Una misura amministrativa era autonoma dalla conclusione del processo penale, estinguendosi indipendentemente dal grado in cui si poteva trovare il giudizio, mentre l'altra presupponeva e si conciliava con l'andamento delle singole fasi del procedimento.

Si presta, invece, a critiche la decisione della Consulta nella parte in cui ha respinto l'infondatezza nella questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 comma 1 L. 27 marzo 2001 n. 97, il quale disciplina l'automaticità della sospensione dal lavoro del dipendente, nel momento in cui viene pronunciata una sentenza di condanna non definitiva per gli illeciti di peculato, di corruzione, di concussione e di collusione militare 2. La motivazione della sentenza ha insistito molto sulle interferenze che si sarebbero verificate sulla volontà legislativa se si fosse deciso in senso contrario. Tuttavia, veniva chiaramente lasciato presagire che sarebbe stato preferibile che fosse lo stesso ente a giudicare e a sindacare l'opportunità della sospensione dal pubblico impiego, piuttosto che stabilirne l'obbligatorietà, soprattutto quando era stato concesso alla persona interessata il beneficio della sospensione condizionale. Ha affermato, inoltre la Consulta, in una precedente decisione, che il provvedimento cautelare amministrativo ha un contenuto identico a quello previsto per le misure interdittive dall'art. 289 c.p.p., dato che entrambi stabiliscono la sospensione dal lavoro 3. Nello stesso tempo si sottolineava anche che le divergenze nascono per le finalità che i provvedimenti vogliono perseguire e per le condizioni richieste per la loro emissione. Nel primo caso, quello regolamentato da norme amministrative, si vuole preservare la credibilità dell'ente pubblico, proteggendo interessi che appartengono alla collettività e che sono riconducibili alla imparzialità ed al buon andamento, come peraltro stabilito dall'art. 97, comma 1 Cost. Vi rientrano anche l'art. 54 comma 2 Cost. che impone al dipendente di compiere le funzioni «con disciplina ed onore» e l'art. 98 comma 1 Cost. che stabilisce che deve porsi «al servizio esclusivo della Nazione». Viene, pertanto, tenuto in considerazione la «cattiva immagine» che ne ricaverebbe l'ente per la permanenza nell'ufficio dell'impiegato nel periodo che precede la verifica della imputazione 4. In queste ipotesi non può essere invocato il principio di non colpevolezza sancito dall'art. 27 comma 2 Cost., non essendoci alcuna proporzionalità con il fatto considerato reato, dato che il provvedimento ha un carattere temporaneo, limitandosi a garantire gli effetti della situazione conclusiva 5. Nell'altro caso, quello della misura cautelare regolamentata dal processo penale, invece, si vogliono prevenire gli illeciti e, quindi, il provvedimento cautelare è collegato alla presenza dei requisiti dell'art. 273 c.p.p. e dell'art. 274 c.p.p. Nel sistema amministrativo, quindi, rispetto a quello penale, non è possibile valutare l'esistenza dei gravi indizi di colpevolezza e nemmeno se esistono esigenze cautelari, come la reiterazione del reato, come il pericolo di fuga e come l'inquinamento delle prove. È una situazione che appare ragionevole quando il provvedimento cautelare viene emesso dopo che è stato pronunciato quello penale. La vicenda appare paradossale nell'ipotesi in cui, nel procedimento che si preoccupa di accertare i reati, non vi siano i presupposti per le limitazioni della libertà personale, per l'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, e la pubblica amministrazione deve comunque procedere a sospendere dal lavoro il dipendente.

La rigidità e l'obbligatorietà del provvedimento dell'art. 4 comma 1 L. 27 marzo 2001 n. 97 è ravvisabile anche nell'art. 3 L. 27 marzo 2001 n. 97, il quale prevede che qualora venga formulata una imputazione per reati come il peculato, la concussione, la corruzione e la collusione militare, si debba sospendere il funzionario, mentre per gli illeciti minori è stabilito che ci debba essere il trasferimento dall'ufficio 6. Viene ribadito, ancora una volta, che non ci devono essere valutazioni discrezionali 7. Il cambiamento d'ufficio si attua spostando materialmente l'impiegato da un luogo ad un altro oppure attribuendogli un incarico differente rispetto a quello ricoperto o, addirittura, collocandolo in aspettativa, qualora, per la posizione rivestita o per motivi organizzativi, non sia possibile attuare alcun trasferimento 8. Al dipendente dovranno essere attribuite funzioni corrispondenti o eguali a quelle acquisite in precedenza 9. Se però la riassegnazione alle mansioni originarie dovesse pregiudicare l'organizzazione interna dell'ente pubblico oppure se l'individuo interessato volesse rimanere nel nuovo posto di lavoro, la pubblica amministrazione può non attuare alcun cambiamento. Non costituisce, però, un diritto del dipendente, quello di rimanere nel luogo ove ha svolto la sua attività dopo il rinvio a giudizio, ma è una semplice manifestazione di volontà che dovrà essere opportunamente vagliata di volta in volta dall'ente pubblico a cui appartiene.

@2. L'estinzione del posto di lavoro.

La Corte costituzionale ha sempre mostrato di seguire due orientamenti distinti, inconciliabili tra loro, ogni volta che è stata chiamata a risolvere le questioni di illegittimità, concernenti i rapporti tra processo penale e coloro che lavorano alle dipendenze di una amministrazione. Uno si riferisce alla automaticità della sospensione dal pubblico impiego, in presenza di una sentenza non definitiva 10, l'altro invece, impone all'ente un giudizio discrezionale nel sanzionare il comportamento del dipendente con la...

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