La diffamazione a mezzo Internet

AutoreGaetano Stea
Pagine1247-1264

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@1. Considerazioni preliminari

- La principale caratteristica di Internet consiste nella possibilità di offrire svariati servizi tra cui spiccano in maniera determinante quelli di informazioni on line. Tanto che, proprio con riferimento a tali tipi di servizi, si parla di Internet come mezzo di comunicazione alternativo o complementare ai media classici della stampa, della radio e della televisione1. La peculiarità di simili informazioni risiede nell'essere rappresentate sotto forma digitale in formato standard e spesso di essere accessibili in maniera gratuita. Si può arrivare a sostenere che la stessa Rete non è altro che un'immensa banca dati, se si considera la possibilità di inserire nei documenti richiami (hyperlink) ad altri documenti presenti in Internet.

È proprio questa vastità che fa sì che più alto è il valore aggiunto della sistemazione critica delle fonti informative, più è alta la probabilità che le informazioni siano facilmente accessibili da parte dell'utente, il quale reperisce le informazioni attraverso vari sistemi di ricerca interattivi che facilitano il reperimento delle informazioni stesse attraverso l'utilizzo di software dedicati allo scopo (c.d. browser)2.

Si è soliti distinguere i reati perpetrabili a mezzo Internet, in quelli consumabili in area pubblica (in relazione alle aree di dibattito pubblico) e quelli in area privata (la corrispondenza elettronica, cioè ogni comunicazione avente destinatari determinati)3.

Nell'ipotesi di diffamazione on line e, certamente, in molte altre, sorge il problema, in genere, di individuare e punire l'autore della condotta delittuosa, nonché quello di valutare la posizione del gestore rispetto al reato commesso da terzi utilizzando il servizio telematico, ovvero, se possa configurarsi, in tali attività criminose, una forma di responsabilità del gestore stesso, e a che titolo.

La questione è di facile soluzione qualora ricorrano, nel comportamento del provider o del gestore, i presupposti di applicabilità dell'art. 110 c.p. in tema di concorso di persone nel reato: oltre alla necessaria presenza di una pluralità di agenti, cioè, è necessario che il soggetto in questione fornisca un contributo alla realizzazione del fatto agendo con coscienza e volontà di partecipare alla realizzazione del progetto comune.

È evidente, quindi, che, in questo caso, per l'integrazione della fattispecie concausale, è indispensabile la ricorrenza del dolo4. Se, al contrario, ci si trovi al di fuori dell'ipotesi di un comportamento doloso, si pone il problema di attribuire al gestore una responsabilità sussidiaria rispetto a quella del soggetto agente.

È necessario evidenziare, poi, che, oltre le responsabilità (presunte o reali) del fornitore del servizio telematico, la diversità dei contenuti della Rete comporta la distinzione di altrettanti soggetti «elettronici», ai quali, in modo più o meno importante, imputare obblighi, scaturenti (alcune volte) in vere e proprie responsabilità, anche di natura penale, in relazione alla loro affinità con altre figure tipiche responsabili proprio delle più tradizionali fattispecie criminali (in particolare, i reati a mezzo stampa).

Nessuno pretende, certamente, che il regime della stampa possa essere esteso alla telematica, perché la telematica comprende moltissime attività che non hanno nulla a che fare con l'informazione5. Vi sono, però, alcuni servizi che hanno le stesse caratteristiche dell'informazione giornalistica e su questi, in particolare, va appuntata l'attenzione.

@2. Brevi note storiche sulla diffamazione nei codici preunitari

- Le legislazioni preunitarie considerarono due diverse ed autonome figure del reato di diffamazione, aggiungendovi l'appendice oPage 1248 aggravante del mezzo costituito dal libello famoso, similmente alle previsioni criminali contenute nel Codice penale francese del 1810, distinguendosi, comunque, per alcuni aspetti6.

Ad onor del vero, l'art. 367 del codice criminale francese configurava, più che il reato di diffamazione, il delitto di calunnia, consistente nel comportamento di colui che, sia in luoghi o riunioni pubbliche, sia in un atto autentico o pubblico, sia in uno stampato o altro scritto destinato alla diffusione o distribuzione, imputava ad altri fatti che, se accertati veri, avrebbero esposto questi o a procedimento penale o al disprezzo e all'odio dei cittadini.

Così anche il codice sardo (art. 570), prevedendo, inoltre, l'aggravamento di pena per l'ipotesi di diffusione a mezzo di stampati o in un atto pubblico o autentico (art. 571).

Diversamente, il Codice penale degli Stati estensi (art. 447) e quello toscano (art. 366), seppur non allontanandosi dalla struttura del delitto in parola, per come configurato nel Codice francese, qualificavano tale reato come diffamazione, anche se il Codice penale parmense era meno preciso nel distinguere tra ingiuria e diffamazione, condannando le ingiurie verbali o reali, che in qualsiasi modo promuovessero l'altrui disprezzo o diffamazione.

Tutti i codici preunitari (citati) prevedevano l'exceptio veritatis, quale momento verificatore della veridicità delle affermazioni dell'autore della presunta diffamazione, concedendo la facoltà allo stesso diffamato di fare istanza affinché il processo contro il diffamatore si estendesse all'accertamento della verità o falsità del fatto addebitato (art. 577 c.p. sardo)7.

La scienza penalistica italiana, sullo slancio e l'innovazione promossi dalla Scuola classica, giunge ad una più precisa qualificazione e distinzione tra le due forme di reato contro l'onore.

Così CARRARA8 definì, con felice lungimiranza, la diffamazione quale imputazione di un fatto criminoso ed immorale diretto dolosamente contro un assente e comunicata a più persone separate o riunite; in questa definizione, come è evidente, rileva, a differenza del Codice Zanardelli, anche l'estremo dell'assenza dell'offeso, in uno alla preoccupazione circa la necessità dolosa del moto psicologico.

Il libello famoso, infine, pur senza l'antica tradizionale denominazione, veniva configurato come fattispecie aggravata del delitto di diffamazione.

@3. La diffamazione nel quadro evolutivo dei mass media

- Nei codici penali anteriori al Codice Zanardelli, come detto, la diffamazione a mezzo stampa era conosciuta come «libello famoso», espressione poi abbandonata come una inutile anticaglia9.

Appare incontroverso, in giurisprudenza ed in dottrina10, che il mezzo della stampa integri una circostanza aggravante del delitto di cui all'art. 595 c.p., individuandosene la ratio nella maggiore insidiosità e diffusività del mezzo della stampa e, dunque, nella maggiore carica offensiva della condotta diffamatoria11.

Tradizionalmente, al fine di individuare la nozione di stampa, si è fatto ricorso alla definizione contenuta nell'art. 1 L. 8 febbraio 1948 n. 47, secondo cui il delitto in parola può considerarsi consumato con il mezzo della stampa nella sola ipotesi in cui ricorrano, contestualmente, la condizione oggettiva relativa alla modalità di formazione dello scritto (mezzi tipografici o fisico-chimici), tale da garantire la riproduzione di un testo in più copie uguali tra loro, e la necessaria destinazione alla pubblicazione, ovvero alla divulgazione, ad un numero indeterminato di soggetti12.

L'art. 13 L. 47/1948 prevede, poi, l'ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato13, configurando una circostanza aggravante complessa14 del reato di cui all'art. 595 c.p., atteso che si limita a stabilire una pena più grave per il caso di concorso delle circostanze di cui all'art. 595 comma 2 e 3 c.p.15.

Prima dell'entrata in vigore della disciplina speciale introdotta con la legge 6 agosto 1990 n. 223, l'attività radiotelevisiva veniva ricondotta, da unanime giurisprudenza e dottrina, nella previsione di cui all'art. 595, comma 4 c.p., ovvero la diffamazione a mezzo radio o televisione configurava un'ipotesi di delitto aggravato dal mezzo della pubblicità16, escludendosi, pertanto, l'aggravante complessa di cui all'art. 13 L. 47/1948.

Il regime delineato dalla legge sulla stampa, infatti, riguardava, esclusivamente, gli stampati secondo la nozione di cui all'art. 1 L. 47/1948, fra cui non poteva farsi rientrare - stante il divieto di analogia in malam partem (art. 14 prel.) - il mezzo radiofonico e televisivo.

L'evidenza di una stridente disparità di trattamento (quoad poenam) fra la diffamazione a mezzo stampa consistente nell'attribuzione di un fatto determinato e l'analoga diffamazione a mezzo radio o televisione, atteso che, nella prima ipotesi, il reato veniva punito in base al combinato disposto degli artt. 595 c.p. e 13 L. 47/1948, con pena più grave, rispetto al secondo caso, punito con la più mite sanzione di cui all'art. 595, comma 4 c.p., sfociò nell'intervento della Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 168 del 22 ottobre 198217, ritenne infondata la questione di legittimità degli artt. 1, 9, 12 e 13 L. 47/1948, nonché degli artt. 57 e 595 c.p., assumendo che le denunziate disparità non fossero censurabili, sia perché solo il legislatore poteva farsi carico di estendere una normativa speciale ad attività diverse e sia perché, in ogni caso, dette disparità non erano prive di ragionevolezza, essendo giustificate dalle peculiari caratteristiche della stampa, che non aveva cessato di profilarsi qualePage 1249 più pericoloso veicolo di diffamazione, rispetto ad altri mezzi di pubblicità)18.

Ad ogni modo, essendo, al contrario, evidente il potere di persuasione psicologica e di orientamento d'opinione che, in particolare, la televisione possiede, alla luce della sua costante invasione nella vita di tutti i giorni, l'art. 30, comma 4 L. 6 agosto 1990 n. 223 dispose l'estensione dell'aggravante di cui all'art. 13 L. 47/1948, al delitto di diffamazione commesso col mezzo della radio o della televisione.

Nonostante l'atteso intervento legislativo, la difformità non venne, però, eliminata...

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