Diffamazione a mezzo stampa, critica giudiziaria e obiettivo politico (più che tecnico) di una decisione

AutoreGiuseppe Losappio
Pagine896-899

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@1. Le quattro affermazioni della decisione commentata

La sentenza che si annota contiene quattro affermazioni “in punto di diritto” che, per diverse ragioni, meritano di essere approfondite:

  1. La prima è un avventuroso giudizio sulla natura di «qualunque proposizione valutativa». Una valutazione -motiva il giudice monocratico di Lecce - «proprio perché rappresenta un giudizio di valore, comporta l’esistenza di postulati o proposizioni indimostrabili “non misurabili” (quali il bello o il brutto, il buono o il cattivo) o comunque difficilmente verificabili in termini universali e oggettivi (il giusto o l’ingiusto, il corretto o lo scorretto, l’utile sociale o il disutile) dei quali non può predicarsi in sede giudiziaria un controllo se non nei limiti della continenza espositiva c cioè della adeguatezza - funzionalità allo scopo dialettico perseguito». Breve: ogni proposizione valutativa sfugge all’aut-aut vero-falso; veri-falsi sono i fatti oggetto del giudizio non i giudizi sui fatti.

  2. La seconda riguarda i limiti della critica giudiziaria in tema di diffamazione nei confronti di un magistrato che, ad avviso del Tribunale salentino, può anche essere aspra ma in nessun caso deve sfociare nel dileggio del magistrato.

  3. La terza concerne il rapporto tra critica del provvedimento e critica dell’autore, che, secondo la sentenza annotata, non è di necessaria corrispondenza. È possibile - argomenta la decisione - criticare con asprezza una decisione senza offendere l’autore.

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  4. La quarta, infine, interessa la possibilità di considerare non offensivo il giudizio secondo cui è politico (più che tecnico) l’obiettivo del giudice quando il provvedimento criticato incide su atti di indirizzo dell’amministrazione pubblica e quindi viene in rilievo un concetto di politica che non può essere «inteso nel senso meno nobile ed etimologico del termine».

    @2. Valutazioni aut falsità, critica versus diffamazione

    La prima affermazione - nella sua semplice (semplicistica?) perentorietà - è dimentica dello storico travaglio di filosofi e giuristi sul rapporto tra fatti e giudizi. Certo non è questa la sede per riprendere un tema difficile e complesso, indisponibile ad esposizioni meramente cursorie e incidentali. Merita notare, in ogni caso, che, considerata da un punto di vista strettamente positivo, la questione relativa alla verità/falsità dei giudizi-valutazioni - la critica è un giudizio, come lo sono le valutazioni - non può essere affrontata senza tenere debitamente in conto le disposizioni che prescrivono o escludono la corrispondenza tra false valutazioni e descrizione legale di un reato (di falso), posto che nell’uno come nell’altro caso, è la legge che, esplicitamente o meno, riconosce la falsità delle valutazioni (es. artt. 2621-2622 c.c.). Beninteso, non è un riscontro decisivo. Se Dio non può far sante le pietre, la legge non può ragionevolmente disciplinare la mungitura dei lupi; la legge, fuor di metafora, non può costituire qualità che gli oggetti non posseggono La natura delle cose, tuttavia, non vincola l’interprete fino al punto di impedire l’adattamento di un significato non giuridico alle esigenze del diritto. L’impossibilità di predicare la falsità/verità di un giudizio1 non comporta l’impossibilità di attribuire alla falsità della critica un significato almeno in parte diverso, surrogando l’alternativa vero-falso con quella corretto-scorretto (frettolosamente bandita dalla sentenza) o regolare/irregolare. È proprio il caso per intendersi dei giudizi concernenti i fatti giuridici, che vengono quasi sempre in rilievo quando si discute di critica giudiziaria e diffamazione. Alla stessa stregua di quanto accade nel diritto penale societario, dove, in relazione alle esigenze di tutela delle comunicazioni sociali, la verità delle valutazioni è legalmente (o comunque normativamente) data2, nella critica giudiziaria è possibile valutare le valutazioni sulla base del codice civile, del codice penale, dei codici di procedura e di tutte le altre regole applicabili a ciascun giudizio; è ben possibile, cioè, verificare se la critica è vera-corretta ovvero è falsa-scorretta.

    Prendiamo il caso dell’avvocato incolpato di diffamazione per avere contestato la decisione di una corte che non avrebbe “letto le carte”. Il giudice di primo grado ritenne che la censura del difensore fosse vera escludendo la sussistenza della diffamazione, mentre per la Corte di appello, la critica, veritiera o no, era stata, perlomeno sotto l’aspetto oggettivo, diffamatoria. Nonostante la notevole discordanza dei dispositivi, l’obiter dictum delle due decisioni è comune. Se fosse stato provato che il giudice aveva letto gli atti entrambe le sentenze avrebbero riconosciuto senz’altro l’aspetto oggettivo del delitto in esame; possiamo ritenere che i giudici sarebbero pervenuti alla medesima conclusione se fosse emerso che il magistrato non doveva leggere gli atti della cui ignoranza era accusato essendo, per esempio, questi inutilizzabili in base alle regole del codice di rito3; anche nell’ipotesi appena formulata, infatti, la valutazione negativa sotto il profilo della diligenza professionale, sarebbe stata falsa-scorretta.

    In un’altra vicenda giudiziaria, un quotidiano a tiratura nazionale pubblicava alcuni articoli di cronaca giudiziaria nei quali si addebitava ad un magistrato un’ingiustificata e grave omissione per non aver disposto, nell’ambito di un processo civile, una consulenza diretta ad accertare il danno ambientale causato dall’avvelenamento del suolo...

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