Tipologia dei dichiaranti e nuove interpretazioni costituzionali dell'art. 208 C.P.P. Cenni sulla deposizione degli agenti infiltrati

AutoreRaffaele Cantone
Pagine245-256

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    Relazione svolta all'incontro di studi sul tema «Le riforme relative al dibattimento» organizzato dal C.S.M. di Roma nei giorni 15-17 dicembre 2003.

@1. Premessa

La legge 63/01 di attuazione della disposizione costituzionale dell'art. 111 - norma divenuta nota nella comune vulgata come quella introduttiva del principio del giusto processo - è significativamente intervenuta sul codice di procedura penale disciplinando, in gran parte ex novo, la materia degli apporti conoscitivi forniti da soggetti dichiaranti.

Ciò ha fatto introducendo un testo molto complesso nella forma e non poco farraginoso, a causa dei numerosi rinvii incrociati ad articoli e commi, oltre che di difficile comprensione quanto al contenuto.

Le facili previsioni, secondo cui i problemi interpretativi che ne sarebbero nati avrebbero dato luogo a defatiganti questioni tecnico-processuali che si sarebbero riverberate negativamente sullo svolgimento dei processi e sui relativi tempi di conclusione, sembrano trovare conferma in ciò che sta avvenendo nella pratica attuazione.

Limitando, ovviamente, l'attenzione a quella parte della legge che si occupa del tema, va anche evidenziato come il legislatore si era prefisso un obiettivo tutt'altro che semplice e cioè di trovare un equo contemperamento tra diverse esigenze: il diritto al silenzio dell'imputato, il diritto di non rendere dichiarazioni autoincriminanti, il diritto dell'accusato a confrontarsi con l'accusatore, l'interesse generale ad acquisire, a fini probatori, il patrimonio di conoscenze in possesso dell'imputato.

Solo il tempo dirà se l'impianto normativo così faticosamente creato sarà o meno efficace sul piano pratico; la prima impressione è non molto incoraggiante: in primo luogo può affermarsi con tranquillità che l'area del diritto al silenzio resta comunque troppo ampia ma soprattutto l'esistenza di una serie di garanzie sulla «non riferibilità» del fatto proprio rischiano inevitabilmente di fornire ai giudici, in alcuni casi, una «testimonianza» molto «parziale» e, quindi, molto difficilmente valutabile sul piano della sua complessiva attendibilità.

@2. Le figure dei dichiaranti previste nel testo originario del codice, in particolare le ipotesi di incompatibilità a testimoniare

Il codice del 1988, riprendendo sul punto l'esperienza introdotta negli anni 70 nel previgente testo, aveva individuato tre categorie di dichiaranti: accanto al testimone e all'imputato era, infatti, prevista la categoria degli imputati in procedimento connesso e/o collegato.

Essa nasceva in conseguenza di specifiche cause di incompatibilità a testimoniare previste nell'art. 197 c.p.p.

Quest'articolo, infatti, rappresentava una deroga al principio della generale capacità a testimoniare esplicitato nella disposizione immediatamente precedente.

I casi di incompatibilità erano raggruppati in 4 ipotesi che, volendo semplificare, rispondevano a due esigenze di tipo diverso.

Un gruppo di casi - quelli indicati nella lett. d) - venivano previsti in ragione di esigenze di efficienza del sistema; gli altri - lett. a), b) e c) - in funzione dell'esigenza di garanzia per i soggetti ivi richiamati.

Limitando l'esame alle fattispecie di cui alle lett. a) e b), con esse si prevedeva l'impossibilità - in ossequio al noto brocardo nemo tenetur se detegere - di assumere come testimoni i coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12 c.p.p., anche se nei loro confronti era stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, di proscioglimento o di condanna, salvo che la sentenza di proscioglimento fosse divenuta irrevocabile 1, nonché le persone imputate di un reato collegato ai sensi dell'art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p.

L'interpretazione che si era, poi, data nella pratica dell'articolo aveva ulteriormente ampliato l'area dei soggetti ai quali andava riconosciuta l'incompatibilità a testimoniare.

Dopo, infatti, qualche sporadica presa di posizione giurisprudenziale tendente a limitare l'incompatibilità al solo imputato, stante l'eccezionalità della norma che impediva un'estensione analogica 2, la tesi dominante aveva ritenuto che le ipotesi di cui alle lett. a) e b) dovessero essere estese anche alle persone sottoposte ad indagini, anche se tale qualifica i predetti avessero avuto in procedimento connesso o collegato 3 ed anche se la loro posizione era stata archiviata 4.

Come conseguenza del sistema derivava l'esistenza di un'ampia fascia di soggetti che potevano essere sentiti quali imputati di procedimento connesso e, quindi, soltanto con le garanzie di cui all'art. 210 c.p.p. e con la facoltà, in qualunque fase del procedimento, di non rispondere alle domande che gli venivano poste.

Questa ampia area dell'incompatibilità a testimoniare era stata messa in discussione, sia pure soltanto con riferimento ad alcuni limitati aspetti, in periodo di poco precedente l'entrata in vigore della L. 63/01.

In particolare, la Corte costituzionale sembrava aver avviato una sorta di revirement giurisprudenziale senza intervenire in modo manipolativo sul testo dell'art. 197 c.p.p. ma con una sentenza interpretativa di rigetto che, se pure non con forza vincolante, poteva certamente rappresentare un autorevolissimo precedente 5. Page 246

Punto di partenza dell'argomentazione della Consulta era che la disciplina dell'incompatibilità a testimoniare deve essere intepretata con criteri di particolare rigore e senza alcuna possibilità di estensione analogica perché essa costituisce un'eccezione alle regole generali in materia di assunzione dell'ufficio di testimone.

Occupandosi dello specifico caso dell'imputato e/o indagato di reato collegato ex art. 371 lett. b) c.p.p., il giudice delle leggi aveva affermato che «l'incompatibilità sussiste soltanto nei confronti di coloro che, e per il tempo in cui, rivestono la qualità di persone imputate o indagate» e che, quindi, questa non ricorre più nelle ipotesi in cui tale situazione è venuta meno per essere stata la posizione del dichiarante già definita anche con un provvedimento di archiviazione o con una sentenza di non luogo a procedere.

Con l'affermazione di principio veniva, quindi, introdotto un importante distinguo: soltanto nei casi indicati nell'art. 197 lett. a) l'incompatibilità a testimoniare dell'imputato o indagato permaneva anche dopo la sentenza di non luogo a procedere o il decreto di archiviazione; nelle ipotesi di collegamento interprobatorio - art. 197 lett. b) - invece, l'incompatibilità cessava con una delle pronunce sopra indicate.

@3. Segue: I rimedi legislativi e giurisprudenziali per sterilizzare l'ampia portata del diritto al silenzio

Come si è accennato il sistema processuale imponeva un ampio ricorso alla forma di dichiarazione di cui all'art. 210 c.p.p. con la conseguenza inevitabile del venir meno degli apporti conoscitivi in tutti quei casi in cui il soggetto sentito avesse utilizzato la sua legittima facoltà di astenersi dal rispondere.

La questione si era posta sin dall'entrata in vigore del codice ed avrebbe forse richiesto una correzione di rotta del legislatore coraggiosa e tale, comunque, da incidere sulle cause che generavano l'inconveniente.

Non essendo intervenuto il legislatore, come si è verificato per molti aspetti del codice di rito, della questione si è fatto carico la Corte costituzionale che ha, però, modulato le sue pronunce manipolative non sulla causa ma sugli effetti; non è stata ridotta l'area dell'incompatibilità a testimoniare ma si è permesso di utilizzare, in modo molto ampio, il materiale formato nelle indagini preliminari.

La prima decisione sull'argomento risale al 1992. Con essa la Consulta dichiarò l'illegittimità costituzionale del comma 2 dell'art. 513 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che il giudice, sentite le parti, potesse disporre la lettura dei verbali di dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste si fossero avvalse della facoltà di non rispondere.

Il parametro costituzionale che si ritenne violato era quello dell'art. 3 della Cost.; la palese irragionevolezza, secondo la Consulta, si sarebbe manifestata «con particolare evidenza ove si consideri la diversità di disciplina cui sono assoggettate... le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari dalle persone imputate in un procedimento connesso o collegato, a seconda che nei loro confronti si proceda in un unico processo cumulativo ovvero separatamente» 6.

Le conseguenze dell'intervento della Corte costituzionale - che, si ricordi, avvenne in un momento del tutto particolare e cioè durante il periodo dell'emergenza criminale successiva alle stragi di Capaci e di via D'Amelio - sui principi del contraddittorio e dell'oralità, cardini del nuovo rito accusatorio, erano evidenti.

Poteva capitare, in teoria, di essere condannati sulla scorta di dichiarazioni rese nelle indagini anche per gravissimi delitti, senza che l'imputato di reato connesso o collegato potesse essere sottoposto ad esame e a controesame pubblico.

Con la legge 7 agosto 1997 n. 267 il legislatore interveniva, sia pure limitatamente, sulla materia ed in particolare su quell'articolo che in qualche modo era diventato il simbolo delle distorsioni processuali e cioè l'art. 513 c.p.p.

La disciplina, prescindendosi qui totalmente dal suo complesso e criticabile regime transitorio, capovolgeva il sistema fino a quel momento vigente.

Le dichiarazioni rese nelle indagini dall'imputato - anche in un procedimento connesso e/o collegato - se non confermate nel dibattimento potevano valere solo contro il dichiarante e non contro i terzi, a meno che questi non acconsentissero alla loro utilizzazione e salvi i casi di irripetibilità sopravvenuta per ragioni imprevedibili.

I correttivi previsti dal legislatore per evitare la dispersione del materiale probatorio acquisito nelle indagini erano sostanzialmente due; si ampliava l'area dell'incidente probatorio: l'esame di un imputato e/o indagato...

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