I Delitti di evasione

AutoreFernando Giannelli e Maria Grazia Maglio
Pagine401-419

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@I. Cenni storici e di diritto comparato

– «L’effrazione del carcere fu presso i Romani un delitto straordinario, punibile persino coll’estremo supplizio»1.

I Romani avevano per luoghi sacri le prigioni...

. «Onde punivano di morte coloro che ne fuggivano con violenza...» «né la legge distingueva se innocente o colpevole era il detenuto, e se condannato o solo imputato».

Tanto riguarda, all’evidenza, l’odierna evasione ex art. 385, 2º co., c.p.

Non era punita la semplice evasione salve le pene, alquanto gravi, per i custodi che avessero procurato o agevolato, per dolo o per colpa, la fuga2.

L’articolo 103 del Codice Leopoldino, del 1786, non assoggettava a pena l’evasione perpetrata sine vi3.

L’articolo 253, 1º co., del codice penale per lo

Regno delle due Sicilie comminava, quanto alla «fuga semplice» dei condannati, l’aumento dall’ottavo al quarto della pena «residuale che ad essi rimane» (evidente pleonasmo), «purché non ricada a più di due anni».

Il 3º comma recitava: «La fuga da’ luoghi di custodia o di pena, eseguita con violenza o frattura violenta» (effrazione) «verrà punita con la reclusione tanto ne’ prigioni» (id est: le persone sottoposte a custodia cautelare) «che ne’ condannati».

L’art. 256 sanciva: «Se la fuga sia stata eseguita in tempo di tumulti popolari, le pene enunciate negli articoli precedenti son sempre accresciute di un grado».

Era, quindi, «fatto non preveduto dalla legge come reato» la «fuga semplice de’ prigioni»4; in mancanza di espressa, contraria, statuizione, la «fuga semplice de’ condannati», anche se commessa in tempo di tumulti popolari, non era assoggettata alla circostanza aggravante di cui all’art. 257 se la pena espianda al momento della fuga superasse i due anni.

L’art. 151 del Regolamento pontificio del 1832

costruiva la figura della fuga con effrazione dal carcere come reato a «dolo specifico», «senza distinzione fra l’effetto seguito o non seguito di evadere dalle prigioni». La pena era della «galera» da cinque a dieci anni, e dell’eventuale conseguimento del fine il giudice poteva tener conto nella concreta irrogazione della pena. All’effrazione era parificata «la violenza personale ai custodi e loro subalterni fatta ad oggetto di fuggire».

La fuga «semplice» dei detenuti non era assoggettata ad alcuna pena.

Il codice toscano del 1853 comminava la pena della «opera pubblica» da tre a cinque anni, prevista – per il delitto di resistenza di cui all’art. 143 – per coloro che si sottraessero all’arresto operato dagli agenti della forza pubblica, purché commettessero qualche atto di violenza (art. 158)5. Quel codice non puniva né la «esimizione» semplice del detenuto «nella carcere di custodia, o in un penale stabilimento» né, tanto meno, quella di colui che fosse detenuto per causa di debito civile; l’evasione con effrazione commessa dal detenuto in carcere od altro penale stabilimento era punita con «la pena della carcere da due a dieciotto mesi», quella commessa con violenza con la pena della resistenza, di cui si è già detto (artt. 160, 1º e 2º parr., 143).

Nel caso, poi, della fuga “cum vi” da parte del detenuto per causa civile, gli artt. 161, par. 1º e 162, lett. a) e b), comminavano «la carcere» da quindici giorni a sei mesi in caso di effrazione, e la pena di cui all’art. 143 per il caso di resistenza ai custodi6.

Il codice sardo-piemontese del 1859, reso esecutivo per le province napoletane con la legge del 17 febbraio 1861, all’art. 284, recitava: «I detenuti che saranno fuggiti od avranno tentato di fuggire con rottura delle carceri od altri luoghi di detenzione, o con violenza contro le persone, saranno puniti col carcere da sei mesi ad un anno: ove siasi anche fatto uso di armi, la pena sarà della reclusione salve sempre le maggiori pene in cui essi fossero incorsi per altri reati che avessero commessi».

Pel solo fatto però di fuga tentata od eseguita coi suddetti mezzi dopo di una condanna, non sarà luogo alle disposizioni contenute nel Libro I, tit. II, capo V, sez. II, “Dei recidivi”

.

Il codice Zanardelli, all’art. 226, prevedeva la detenzione da tre a diciotto mesi per «chiunque, essendo legalmente arrestato evade, usando violenza verso le persone o mediante rottura»; all’art. 227 era, invece, preveduto il caso del «condannato che evade valendosi di uno dei mezzi indicati nell’articolo precedente», comminandosi «un aumento sino a due anni della segregazione cellulare continua o un nuovo periodo di tale segregazione per un tempo equivalente se scontava la pena dell’ergastolo; un prolungamento da un terzo alla metà della pena che gli rimane da scontare, se trattisi di altra pena re-Page 402strittiva della libertà personale, purché tale prolungamento non sia inferiore ai tre mesi né superiore ai tre anni».

Anche se non vi fosse violenza alle persone, od effrazione d’alcunché, il secondo comma dell’art. 227 rendeva applicabili le disposizioni precedenti al condannato ammesso, ex art. 14, a lavorare fuori dello stabilimento penale7.

Trattandosi della reclusione, l’aumento si opera sul periodo di pena nel quale il condannato la stava scontando, tranne che si tratti del modo di esecuzione preveduto nell’art. 14, nel qual caso il prolungamento si sconta nello stabilimento ordinario con il lavoro in comune

(art. 227, 3º co.).

Il comma 4º escludeva, per l’evasione, l’applicazione delle disposizioni dell’art. 76, ove si trattava della recidiva8.

L’art. 385 del nostro codice (prima formulazione) recitava: «Chiunque, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade è punito con la reclusione fino a sei mesi».

La pena è della reclusione fino a diciotto mesi se il colpevole commette il fatto usando violenza o minaccia verso le persone ovvero mediante effrazione; ed è da due a cinque anni se la violenza o minaccia è commessa con anni o da più persone riunite

.

Le disposizioni precedenti si applicano anche al condannato ammesso a lavorare fuori dello stabilimento penale

.

Quando l’evaso si costituisce in carcere prima della condanna, la pena è diminuita

9.

Il testo odierno, risultante dall’avvento delle leggi 12 gennaio 1977, n. 1 (art. 15) e 12 agosto 1982, n. 532 (art. 29), è il seguente: « – Evasione – Chiunque, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade, è punito con la reclusione da sei mesi ad un anno».

La pena è della reclusione da uno a tre anni se il colpevole commette il fatto usando violenza o minaccia verso le persone, ovvero mediante effrazione; ed è da tre a cinque anni se la violenza o minaccia è commessa con armi o da più persone riunite

.

Le disposizioni precedenti si applicano anche all’imputato che, essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato nel provvedimento, se ne allontani, nonché al condannato ammesso a lavorare fuori dello stabilimento penale

.

Quando l’evaso si costituisce in carcere prima della condanna, la pena è diminuita

.

Il codice Rocco ha, quindi, unificato le previsioni riguardanti gli arrestati, coloro che si trovino in stato di custodia cautelare, e i condannati con sentenza irrevocabile (art. 648 c.p.p.); ha qualificato alla stregua di circostanze aggravanti evenienze che sotto passate legislazioni, ivi compreso il codice Zanardelli (e salvo, per quest’ultimo, il caso delle persone ammesse a lavorare fuori dello stabilimento penale), erano elementi essenziali dell’evasione.

L’incriminazione, in ogni caso, dell’evasione ben si colloca nell’ambito della visione politica ispiratrice del nostro vigente codice.

Se si volesse diversamente opinare, basterebbe osservare che nel codice svizzero, il quale si pone in continuità storico-ispiratrice con il codice Zanardelli, l’art. 310, 3º co., punisce con la reclusione sino a tre anni o con la detenzione non inferiore ad un mese i compartecipi della «liberazione di detenuti» (il fatto – 1º co. – di «chiunque, usando violenza, minaccia od astuzia, libera una persona arrestata, detenuta o collocata in uno stabilimento per decisione dell’autorità, o le presta aiuto nell’evasione») «che hanno commesso atti di violenza contro le persone o le cose»; punisce (art. 311, 1º co., n. 3) con la detenzione non inferiore ad un mese «i detenuti o le persone collocate in uno stabilimento per decisione dell’autorità che si assembrano per evadere violentemente»; che il codice russo, entrato in vigore il 1º gennaio 1961, all’art. 186, puniva con la privazione della libertà fino ad un anno, secondo l’Ukaz (decreto) 8 maggio 1968, l’evasione dalla località di confino o dall’istituto di profilassi medicolavorativa o lungo il percorso per raggiungere il confino o l’istituto; all’art. 188, 1º co., puniva con la privazione della libertà fino a tre anni «l’evasione dal posto di reclusione e di detenzione, commessa da chi sta scontando la pena ovvero il carcere preventivo; l’evasione, congiunta alla violenza al personale di custodia, era punita» – art. 188, 2º co. – «con la privazione della libertà fino a cinque anni».

L’art. 188 bis (vedasi Ukaz 11 marzo 1977) puniva con la privazione della libertà fino ad un anno «l’elusione dell’obbligo di scontare la pena da parte del condannato al quale è stato concesso di allontanarsi per breve tempo dal posto di privazione della libertà».

@II. L’evasione di cui all’art. 385, 1º co., c.p.; sua costruzione come reato proprio

– Il delitto di cui all’art. 385, 1º co., c.p. è ascritto dalla dottrina dominante10 al novero dei reati propri, potendo esser commesso solo da «chiunque, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade».

È noto che l’uso del pronome “chiunque” non è decisivo quanto alla qualificazione di un reato come proprio o comune.

Già quanto al delitto di insolvenza fraudolenta (art. 641 c.p.) il Manzini11 ritiene doveroso specificare «chiunque, purché sia capace di obbligarsi»; l’Antolisei12 ravvisa un reato proprio nel delitto di inadempimento di contratti di forniture in tempo di guerra, in quanto – nota l’autore – la legge (art. 251 c.p.) usa...

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