Il decisionismo e la costituzione di valori (a 50 anni dal dibattito di Ebrach)
Autore | Baldassarre A. |
Pagine | 3-24 |
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Antonio Baldassarre
IL DECISIONISMO E LA COSTITUZIONE DI VALORI
(a 50 anni dal dibattito di Ebrach)
SOMMARIO: I. Il ruolo della ‘teologia politica’ nel rapporto tra diritto e potere secondo Carl Schmitt. - II.
Decisionismo versus valori e la riduzione di questi alla «valorizzazione». - III. «Valorizzazione» e
«valutazione» nell’ambito della divisione dei poteri propria dello ‘ Stato di diritto’. - IV. «Il decisioni-
smo» come unico «valore» nello stato di natura permanente di Schmitt. - V. Il ruolo della costituzione
come ‘Ethos’ giuridico nel «pluriverso» politico globale.
I. Il ruolo della ‘teologia politica’ nel rapporto tra diritto e potere secondo Carl Schmitt
Nell’incontro di Ebrach del 1959, organizzato subito dopo l’avvio della giurispru-
denza del Bundesverfassungsgericht che si fonda sull’idea della costituzione come «si-
stema di valori» (Wert-system), è emersa con inusitata chiarezza la complessiva e arti-
colata problematica derivante dall’incontro tra la costituzione, quale norma giuridica
fondamentale, e i valori, quali espressioni del radicamento del diritto in un’etica giuri-
dica superiore, sottratta alla volontà di potenza del sovrano di turno.
Tuttavia, nello stesso incontro di Ebrach, che qui ricordiamo come momento cru-
ciale dell’evoluzione della scienza giuridica europea e come modello di discussione fra
intellettuali appartenenti ad aree disciplinari diverse, sono emersi, con forza altrettanto
inusitata, i maggiori equivoci che nelle giurisprudenze (costituzionali) dei principali
Paesi europei hanno accompagnato il passaggio da un’impostazione legata al formali-
smo scolastico e semplicistico, proprio di un positivismo statalistico ormai cultural-
mente svuotato della sua ragion d’essere storica, a un’impostazione che richiede al giu-
rista e agli operatori giuridici (magistrati, avvocati, etc.) un nuovo atteggiamento cultu-
rale e un diverso compito. L’idea scientista che questi ultimi rappresentassero una sorta
di istanza tecnica, completamente racchiusa in un rassicurante specialismo giuridico, è
stata spazzata via dalla presa di coscienza che pressoché tutte le norme giuridiche, e in
ogni caso le più importanti (quelle costituzionali), richiedono una certa forma di valu-
tazione, ben lontana dalla meccanica o avalutativa applicazione, immaginata, prima,
dagli illuministi e, poi, dai positivisti giuridici.
Analizzando il dibattito di Ebrach a cinquant’anni di distanza non appare affatto
inaspettato che il contributo di gran lunga più interessante – tanto in direzione della
messa a fuoco dei principali problemi emergenti dalla domanda di un nuovo compito
per il giurista, quanto in direzione degli inevitabili equivoci prodotti da una non facile
transizione – sia venuto dal costituzionalista che più di ogni altro in Europa, anzi nel
mondo, ha compreso che il tornante storico rappresentato dal Novecento avrebbe con-
dotto a un cambiamento radicale dell’idea di «diritto» per effetto del mutamento stesso
delle basi della convivenza fra i popoli e fra gli esseri umani. È, infatti, dall’intervento
tenuto a Ebrach dall’Autore del Nomos della Terr a – libro che era stato pubblicato no-
ve anni prima da un oscuro tipografo di Plettemberg (pensate bene: nessun editore ave-
va voluto pubblicare allora uno dei più importanti libri di diritto del secolo XX!) – che
sono venuti fuori gli aspetti più problematici della tematica dei valori costituzionali.
Non si può, pertanto, esaminare il dibattito tenuto a Ebrach nel 1959 senza mettere
a fuoco il contenuto di quell’intervento, trasfuso poi nel saggio emblematicamente inti-
tolato La tirannia dei valori. Una lettura attenta e approfondita di quel testo lascia in-
travedere, infatti, in quale misura Carl Schmitt, mentre riesce a cogliere i nodi cruciali
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della tematica dei valori, nello stesso tempo ne dà un’interpretazione che resta prigio-
niera, oltrechè dal senso di sconfitta che circonda tutte le sue opere di quel tempo, di un
aspetto del suo pensiero affondante in una tradizione teologica da cui non si è mai libe-
rato: l’idea che tutta la fenomenologia giuridica debba essere r icondotta a una fattore
causale primo, a un a tto pr imordiale assolutamente originario, dal quale derivano,
come pure conseguenze, tutti gli atti e gli eventi giuridici successivi.
Questa è, sotto il profilo metodologico, l’essenza della sua «teologia politica» che
emerge in tutti i passaggi cruciali del suo pensiero: quando, ad esempio, definisce il
«sovrano» come quella sorta di «dio mortale» che, risultando vincitore dal bellum
omnium e dal conflitto estremo, trasforma il caos primitivo in ordine giuridico; quando,
con un’analisi filologica originale, coglie l’essenza del Nomos in una primigenia «ap-
propriazione/ripartizione/utilizzazione»; quando, con un’ardita operazione linguistica,
collega Ordnung (ordinamento) a Ortung (localizzazione, determinazione del luogo,
dello spazio terrestre) al fine di fissare in un’originaria unità tra «diritto» e «territorio»
l’essenza del primo (J ustissima Tellus) che si andava dissolvendo nel mondo globale.
Insomma, come nel pensiero teologico c’è sempre una Origo o un Pr imum – se pure di
natura immateriale, come il lògos o lo spirito divino –, così nell’analisi schmittiana c’è
sempre un evento (materiale) originario, che spiega ogni altro fenomeno giuridico es-
sendone la causa prima.
Questo mito – perché lo schema teologico, una volta divenuto, o trasfuso nel, me-
todo delle scienze sociali (e, quindi, del diritto), altro non è che un «mito» nel senso
proprio del termine – non è mai venuto meno nelle costruzioni giuridiche di Schmitt,
anche se non ha nulla di «scientifico». Esso è, infatti, il connotato della più antica, anzi
arcaica, tradizione del pensiero giuridico – quella del «naturalismo causale» – peraltro
tutt’altro che tramontata ancor oggi, stando ai molti (troppi) studi attualmente pubblica-
ti che tuttora la seguono, nonostante il diffuso discredito di cui gode nella epistemolo-
gia moderna.
È difficile dire come mai tale schema sia presente – e lo sia, anzi, in misura tanto
importante – nel pensiero giuridico di Schmitt. A prima vista potrebbe sorprendere che
un intellettuale come lui, che, unico fra i giuristi, mostra di avere confidenza con la cri-
tica heideggeriana alla tradizionale concezione filosofica dell’Essere – e, quindi, alla
metafisica, da Platone a Kant –, dia tanto spazio a un modello epistemologico che, a
prezzo di una grave contraddizione interna, lo faceva ripiombare nella più vetusta tra-
dizione del pensiero causale. Eppure, se si colloca Schmitt nella sua epoca e se si vede in
lui il pensatore che più di altri percepisce il senso del passaggio storico segnato dal Nove-
cento, il suo ricorso allo schema teologico appare giustificabile, all’interno del suo pensiero,
pur se resta, a mio avviso, oggetto di critica e di disapprovazione in generale.
Si può dire quanto si vuole che la concezione del diritto di Carl Schmitt trae la
propria linfa da una molteplicità di ispirazioni difficilmente riconducibile a unità. Un
giudizio del genere, pur diffuso soprattutto fra i giuristi tedeschi, è frutto, a mio parere,
di un’analisi che si ferma all’esteriorità della sua concezione giuridica: perché Schmitt
solo alla superficie appare ora istituzionalista, ora «realista» o qualsiasi altra cosa si
voglia. In realtà non è con queste chiavi di lettura che va valutato il suo pensiero, se
non altro perché Schmitt pretende proprio di andare oltre tali chiavi metodologiche. Se
lo si frantuma nelle concezioni che egli intendeva superare (aufheben), magari inglo-
bandone i significati, si rischia seriamente di fraintenderne del tutto il significato e,
specialmente, la novità.
Acuto testimone di un passaggio epocale, Schmitt volge il suo sguardo di giurista
ben oltre le cristallizzate visioni dei giuristi sette-ottocenteschi, ancora molto in voga
tra i propri contemporanei. Il normativismo o l’istituzionalismo dei suoi tempi non era-
no altro che variazioni sul tema dello Staa tsrecht, del diritto dello Stato, visto ora nelle
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