Decisioni della Corte

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine617-622

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@CORTE COSTITUZIONALE 4 aprile 2008, n. 85. Pres. Bile - Est. Flick - Ric. Corte d'appello di Bologna ed altra

Impugnazioni penali in genere - Impugnazione del difensore dell'imputato - Sentenze di proscioglimento per reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa - Appello - Preclusione - Illegittimità costituzionale. Impugnazioni penali in genere - Impugnazione del difensore dell'imputato - Sentenze di proscioglimento per reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa - Appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella della L. 46/2006 - Inammissibilità - Illegittimità costituzionale.

È costituzionalmente illegittimo l'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 c.p.p., esclude che l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva. (L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 1; c.p.p., art. 593; c.p.p., art. 603) (1).

È costituzionalmente illegittimo l'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l'appello proposto prima dell'entrata in vigore della medesima legge dall'imputato, a norma dell'art. 593 c.p.p., contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile. (L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10; c.p.p., art. 593) (2).

    (1, 2) Per Cass. pen., Sez. un., 12 luglio 2007, Lista, in Ius&Lex dvd, n. 2/2008, Ed. La Tribuna, la sentenza che dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge ha efficacia erga omnes - con l'effetto che il giudice ha l'obbligo di non applicare la norma illegittima dal giorno successivo a quello in cui la decisione è pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica - e forza invalidante, con conseguenze simili a quelle dell'annullamento, nel senso che essa incide anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio in cui è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, spiegando, così, effetti non soltanto per il futuro, ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, sempre, però, che non si tratti di situazioni giuridiche «esaurite» e cioè non più suscettibili di essere rimosse o modificate, come quelle determinate dalla formazione del giudicato, dall'operatività della decadenza, dalla preclusione processuale. Nel caso di specie analizzato dalle S.U., i giudici hanno ritenuto che ricorresse una situazione «esaurita» nel caso di appello del P.M. avverso sentenza assolutoria, dichiarato inammissibile per effetto degli artt. 1 e 10 comma secondo, L. n. 46 del 2006, che ne precludevano l'esperibilità, pur dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle relative disposizioni - Cost. n. 26 del 2007 -, stante l'inerzia della parte pubblica, la quale, non avendo assunto alcuna iniziativa processuale intesa a prevenire il consolidarsi della inammissibilità, mediante la preliminare deduzione di incostituzionalità delle suddette disposizioni o l'esercizio della facoltà, prevista dall'art. 10 comma terzo legge cit., di proporre ricorso per cassazione entro 45 giorni dalla notifica dell'ordinanza di inammissibilità dell'appello, aveva di fatto prestato ad essa acquiescenza.

RITENUTO IN FATTO. 1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, impedisce all'imputato di proporre appello contro la sentenza di non doversi procedere per prescrizione, conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti; nonché dell'art. 10 della medesima legge, nella parte in cui impone di dichiarare inammissibile detto appello, ove proposto anteriormente alla data di entrata in vigore della legge stessa.

La Corte rimettente riferisce di essere investita dell'appello proposto da tre imputati contro la sentenza emessa dal Tribunale di Frosinone il 2 marzo 2004, che aveva dichiarato non doversi procedere nei loro confronti in ordine ad una serie di reati (corruzione aggravata per atti contrari ai doveri di ufficio, truffa pluriaggravata e abuso in atti d'ufficio), per essere i medesimi estinti per prescrizione, a seguito della concessione delle attenuanti generiche, ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti contestate.

Il gravame - prosegue il giudice a quo - dovrebbe essere dichiarato inammissibile ai sensi degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006, non essendo più previsto l'appello come mezzo di impugnazione delle sentenze di proscioglimento.

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Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disciplina.

È ben vero - osserva il giudice a quo - che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non risulta costituzionalizzato: tanto che si è discussa l'opportunità di abolire l'appello, sia per rendere più celere la definizione dei processi, che per eliminare il contrasto tra un giudizio di primo grado improntato all'oralità e un giudizio di secondo grado essenzialmente «cartolare». Ma una volta che la legge n. 46 del 2006 continua a prevedere l'istituto, le limitazioni poste all'esperibilità di tale mezzo di impugnazione da parte dell'imputato si rivelerebbero contrarie tanto al principio di ragionevolezza, in correlazione al diritto di difesa; quanto al principio di ragionevole durata del processo.

L'esclusione di un secondo grado di merito, rispetto ai processi conclusisi in primo grado con una declaratoria di prescrizione, potrebbe ritenersi, difatti, ragionevole allorché non vi sia stato, in tali processi, «un sostanziale giudizio di merito»: come avverrebbe nel caso di sentenza emessa ai sensi dell'art. 129 c.p.p., con cui il giudice di prime cure si limita a delibare la non evidenza dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità ad esso dell'imputato.

Ben diversa sarebbe, invece, l'ipotesi in cui - come nella specie - si pervenga alla declaratoria di prescrizione del reato in esito ad una valutazione di merito, che presuppone il riconoscimento della colpevolezza dell'imputato: riconoscimento il quale non sfocia in una pronuncia di condanna solo a seguito della concessione di attenuanti, che fanno rientrare il reato nell'ambito di applicazione della causa estintiva. In tale evenienza, negare all'imputato la possibilità di ottenere la modifica della decisione, tramite un secondo giudizio «in fatto», costituirebbe soluzione irrazionale, ove si consideri che, in base alla normativa vigente, l'imputato può proporre appello anche solo per ottenere la riduzione della pena della multa; ma non quando - come nell'ipotesi oggetto del giudizio principale - sia stato ritenuto, nella sostanza, un «corrotto».

La soluzione normativa censurata violerebbe, altresì, il diritto di difesa: giacché se, da un lato, la sentenza dichiarativa della prescrizione non costituisce, in senso formale, una condanna e, pertanto, non può fare stato nei processi civili e amministrativi; dall'altro lato, però - a prescindere dall'influenza che la sentenza stessa può comunque dispiegare in detti processi - l'art. 24 Cost. assicurerebbe all'imputato il diritto ad esperire tutti i mezzi previsti dall'ordinamento (e l'appello lo è ancora) al fine di tutelare la propria «immagine morale»: immagine certamente compromessa da una pronuncia di prescrizione quale quella in discorso.

Da ultimo, l'innovazione...

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