Dall'indisponibilità della vita all'autodeterminazione della persona

AutoreElio Palombi
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Rivista penale 6/2018
ORDINANZE DI RINVIO ALLA CORTE COSTITUZIONALE
6/2018 Rivista penale
ORDINANZE DI RINVIO ALLA CORTE COSTITUZIONALE
DALL’INDISPONIBILITÀ
DELLA VITA
ALL’AUTODETERMINAZIONE
DELLA PERSONA
di Elio Palombi
1. La Corte di assise di Milano, nell’interpretare la nor-
ma di cui all’art. 580 c.p. sull’istigazione o aiuto al suicidio,
giunge alla motivata conclusione secondo cui le condotte
di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non inci-
dano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, non
sono penalmente sanzionabili. Poiché, però, si aggiunge,
la norma, secondo il diritto vivente, incrimina le condotte
di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo alla
determinazione o al rafforzamento del proposito di sui-
cidio, si ritiene che il giudizio in esame, relativo al caso
(Omissis), non possa essere def‌inito indipendentemente
dalla risoluzione della questione sulla legittimità costitu-
zionale dell’art. 580 c.p.
Nell’analisi della norma di cui all’art. 580 c.p., la Cor-
te prende le mosse dai principi affermati in una sentenza
della Cassazione del 6 febbraio 1998 n. 3147, che, nel de-
f‌inire le condotte di agevolazione incriminate dall’art. 580
c.p., sottolineava che le stesse sono state previste come
alternative a quelle di istigazione e perciò sono punibili a
prescindere dalla ricaduta sul processo deliberativo dell’a-
spirante suicida. Alla base di questa interpretazione della
norma vi è la concezione del suicidio come fatto riprove-
vole e individua la sua ratio nella tutela del bene supremo
della vita, rifacendosi agli stessi principi che ispirarono
l’incriminazione prevista dall’art. 580 c.p., introdotto nel
1930 dal Codice Rocco, basati sulla considerazione che il
suicidio fosse una condotta connotata da elementi di di-
svalore perché contraria ai principi fondamentali della
società, quello della sacralità/indisponibilità della vita in
correlazione agli obblighi sociali dell’individuo ritenuti
preminenti secondo il regime fascista.
Nel contempo, la Corte di assise si rende, però, conto
che nell’esegesi della norma di cui all’art. 580 c.p., non si
può prescindere dai principi introdotti dalla nostra Costi-
tuzione, che hanno comportato una diversa considerazione
del diritto alla vita, alla luce del principio personalistico
di cui dall’art. 2 e di quello dell’inviolabilità della libertà
individuale enunciato dall’art. 13. Nell’interpretazione
della norma i vincoli non provengono più dall’esterno del
sistema giuridico ma dal suo interno, attraverso il ricorso
al testo costituzionale che, come fonte giuridica primaria,
detta le linee portanti del sistema penale. Viene, in tal
modo, introdotto un livello normativo superiore al diritto
positivo, che impone all’interprete di valutarlo criticamen-
te alla luce dei valori espressi dalla Carta Costituzionale.
La Corte di assise, pertanto, ritiene necessario, nel
caso in esame, il ricorso alla Consulta, alla quale è pos-
sibile rivolgersi “allorquando – osserva – il giudice rimet-
tente ha l’alternativa di adeguarsi ad un’interpretazione
che non condivide o assumere una pronuncia in contrasto,
probabilmente destinata ad essere riformata”.
2. Questi chiari principi di valenza costituzionale per
lungo tempo hanno stentato ad affermarsi nel nostro si-
stema giuridico, ove si pensi alle vicende estremamente
dolorose di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, pure
richiamate dalla Corte di assise nell’ordinanza in esame,
che, nella contrapposizione ideologica tra il principio di
autodeterminazione del malato e il principio di indisponi-
bilità della vita, hanno creato sconcerto nell’opinione pub-
blica di fronte al dramma umano degli ammalati terminali.
Nelle situazioni dolorose che si sono presentate nella
realtà, il cittadino esasperato e nel vivo di un profondo
dramma umano, era portato a rivolgersi al giudice, invo-
cando un provvedimento d’urgenza che autorizzasse il
medico ad intervenire, ma la magistratura, anche nelle
situazioni più disperate, si è sempre mostrata restia ad
accogliere tali istanze.
Emblematico è il caso di Eluana Englaro, che dal 1992,
in seguito ad un incidente d’auto, giaceva nel letto di una
clinica, immobile, con gli arti irrigiditi e deformati, ali-
mentata con sondino nasogastrico. Le reiterate richieste
alla magistratura da parte del padre-tutore di sospendere
l’alimentazione artif‌iciale che teneva in vita la f‌iglia, per
porre f‌ine a una situazione straziante di natura irrever-
sibile, erano state sempre rigettate. Allo stesso modo,
nel caso, altrettanto drammatico, di Piergiorgio Welby la
magistratura dichiarava inammissibile l’azione cautelare
proposta, diretta a sospendere le cure, in assenza di una
previsione normativa in materia. I magistrati invocavano,
quindi, l’intervento del legislatore su un tema sul quale le
nostre coscienze si smarriscono, mentre l’opinione pubbli-
ca rimaneva sconcertata di fronte alle animate discussioni
sul diritto alla vita, che portavano al radicarsi di uno scon-
tro frontale su posizioni fortemente contrapposte.
Nei disegni di legge, presentati al Senato intorno alla
metà del 2006, veniva affrontata la complessa tematica,
senza, però, dare una risposta alle richieste auspicate
dalla magistratura. Evidentemente il legislatore era in
diff‌icoltà nel def‌inire normativamente il concetto di acca-
nimento terapeutico, caricato di implicazioni etiche, sulle
quali lo scontro frontale tra opposti orientamenti rendeva
impraticabile qualsiasi soluzione.
3. Nell’esaminare il procedimento disciplinare contro il
medico che aveva aiutato Piergiorgio Welby, malato termi-
nale, a morire, l’Ordine dei medici di Cremona, in data 1°
febbraio 2007, giungeva alla conclusione di archiviare il caso,
rilevando che il malato aveva espresso “una volontà lucida,
pienamente cosciente e sapeva a quali conseguenze sarebbe
andato incontro” e che in ogni caso in base al codice etico
“nessuno può essere curato contro la sua volontà”. Il medico,
veniva osservato, “non ha commesso eutanasia perché non ha
agito per eliminare una vita ma per rispondere alla domanda
dell’uomo che chiedeva gli fosse soppressa”. Nella decisio-
ne dell’Ordine dei medici di Cremona è prevalso, pertanto,
il principio dell’autodeterminazione del paziente, espresso
nella riconosciuta potestà di rif‌iutare il trattamento.
Su questa strada si poneva anche il P.M. di Roma che
aveva fatto richiesta di archiviazione nel procedimento
contro l’anestesista intervenuto per staccare la spina, ma
il GIP, andando in contrario avviso, nel rigettare la richie-
sta di archiviazione, restituiva il fascicolo processuale al
P.M., disponendo l’iscrizione del medico nel registro degli
indagati per l’ipotesi di omicidio del consenziente, non
condividendo, evidentemente, il principio di autodetermi-
nazione del paziente su cui era fondata la richiesta di ar-
chiviazione. Successivamente, a seguito di nuova richiesta
di archiviazione, il GIP disponeva l’imputazione coatta nei
confronti del medico conf‌igurando nella specie il reato di
omicidio del consenziente. Era prevalso, pertanto, il rispet-
to del principio di indisponibilità della vita sul principio
di autodeterminazione del paziente espresso attraverso il
rif‌iuto del trattamento. Anche se è profondamente avver-
tita, osservava il GIP, l’esigenza di rispettare la volontà del
paziente nella fase f‌inale della propria vita, tuttavia non bi-
sogna mai dimenticare che “il diritto alla vita nella sua sa-
cralità, inviolabilità e indisponibilità costituisce un limite
per tutti gli altri diritti, come quello affermato nell’art. 32
della Costituzione”. In ogni caso, anche in questa occasio-
ne veniva ribadita” la necessità di una disciplina normativa
che preveda delle regole alle quali attenersi in simili casi,
f‌issando in particolare il momento in cui la condotta del
medico rientri nel divieto di accanimento terapeutico”.
L’intervento legislativo, tante volte invocato dalla ma-
gistratura, trovava, però, forti ostacoli nell’insuperabile
contrasto esistente tra opposti principi: quello di autode-
terminazione del paziente e quello di indisponibilità della
vita. Su questo fronte i lavori in Commissione Senato sui
disegni di legge sul testamento biologico, presentati nel
corso del 2006, si arenarono, nonostante tutti gli sforzi del
Ministro della Salute di individuare una strada per com-
porre le dispute.
Non ci si deve meravigliare a questo punto se la magi-
stratura, scavalcando la politica, non esitò a risolvere il
problema, prendendo decisamente posizione, tra i due
principi contrapposti, a favore dell’autodeterminazione
del paziente. Con sentenza in data 23 luglio 2007, il GUP
del Tribunale di Roma, risolveva il caso prosciogliendo il
medico dall’accusa formulata a suo carico, perché il fatto
non costituisce reato. Secondo il giudice, Piergiorgio Wel-
by aveva il diritto di chiedere l’interruzione della ventila-
zione artif‌iciale che lo teneva in vita ed il medico aneste-
sista, che lo aveva sedato e poi staccato dal respiratore,
aveva il dovere di assecondare la volontà del malato.
La decisione partiva dal riconoscimento del diritto
all’autodeterminazione della persona in materia di trat-
tamento sanitario. Ad avviso del GUP “non è l’esistenza
dell’accanimento terapeutico a connotare di legittimità la
condotta del medico che lo faccia cessare, bensì è la volon-
tà espressa del paziente di voler interrompere la terapia
ad escludere la rilevanza penale della condotta del medico
che interrompa il trattamento”. “Il rif‌iuto di una terapia
costituisce un diritto costituzionalmente garantito già per-
fetto, rispetto al quale sul medico incombe, in ragione della
professione esercitata e dei diritti e doveri scaturenti dal
rapporto terapeutico instauratosi con il paziente, il dove-
re giuridico di consentirne l’esercizio, con la conseguenza
che, se il medico in ottemperanza a tale dovere, contribuis-
se a determinare la morte del paziente per l’interruzione di
una terapia salvavita egli non risponderebbe penalmente
del delitto di omicidio del consenziente, in quanto avrebbe
operato alla presenza di una causa di esclusione del reato e
segnatamente quella prevista dall’art. 51 c.p.”.
Anche l’altra drammatica vicenda di Eluana Englaro,
dopo i sistematici rigetti da parte della magistratura delle
richieste del padre-tutore di autorizzazione a sospendere
l’alimentazione artif‌iciale della f‌iglia, che giaceva da anni
immobile a letto in una situazione straziante, trovò approdo
in Corte di cassazione che, con sentenza del 16 ottobre 2007
n. 21748, affermava il principio secondo cui il diritto alla sa-
lute, “come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo
risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalar-
si, di non curarsi, di vivere le fasi f‌inali della propria esisten-
za secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato,
f‌inanche di lasciarsi morire”. Tutto ciò trova fondamento,
aggiungeva il Supremo Collegio, “nel principio solidaristi-
co che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella
persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumen-
talizzazione della medesima per alcun f‌ine eteronomo ed
assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in
funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e
guarda al limite del ‘rispetto della persona umana’ in riferi-
mento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua
vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione
del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e f‌ilosof‌i-
che che orientano le sue determinazioni volitive”.
Pur escludendo la Corte di cassazione che l’idratazio-
ne e l’alimentazione artif‌iciali con sondino nasogastrico
costituiscano, in sé, oggettivamente una forma di accani-
mento terapeutico, decideva che il giudice può, su istanza
del tutore, autorizzare l’interruzione soltanto quando ri-
corre l’irreversibilità dello stato vegetativo, accertato dal
medico, il quale deve escludere ”la benché minima pos-
sibilità di un qualche, sia pure f‌lebile, recupero della co-
scienza e di ritorno a una percezione del mondo esterno”.

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