I Criteri d'inferenza nella valutazione della prova dei reati sessuali

AutoreIsidoro Palma
Pagine80-85

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@1. Premessa

- Il ragionamento giudiziario consiste nel desumere, dagli elementi di prova acquisiti, la dimostrazione dell'esistenza dei temi oggetto del processo (c.d. «risultato di prova»). Ciò che consente di collegare l'elemento di prova al risultato probatorio è il complesso dei criteri d'inferenza che stanno alla base di ogni ragionamento. Per comprendere il modo in cui i criteri d'inferenza operano all'interno del ragionamento probatorio occorre premettere un breve cenno alla struttura dell'argomentazione sulla prova.

Il giudizio sul fatto di reato è di tipo abduttivo. L'abduzione è la forma d'inferenza che trova applicazione, allorquando si conosce un determinato evento e se ne vuole individuare l'antecedente causale. Ciò è proprio quanto avviene nel processo, atteso che la conoscenza del fatto di reato oggetto dell'imputazione non avviene per constatazione, non essendo il giudice presente al momento del verificarsi del fatto, ma è una ricostruzione per inferenza, ossia mediante un cammino a ritroso che parte dall'evento concreto e risale al suo antecedente causale (condotta umana contestata in imputazione), grazie alla mediazione di un criterio d'inferenza. Ma il giudice per esprimere il suo verdetto si avvale anche di ragionamenti di tipo deduttivo, che si inseriscono come tappe intermedie lungo il cammino che lo porterà alla decisione finale. La struttura del ragionamento deduttivo è di tipo sillogistico: esiste una regola di carattere generale (premessa maggiore) che ci consente di affermare che al verificarsi di un determinato antecedente segue, con una certa regolarità, la medesima conseguenza. Se il processo ha consentito di provare l'esistenza di un fatto sussumibile nella classe degli antecedenti della premessa maggiore, allora è possibile ritenere processualmente acclarata la conseguenza che la regola solitamente ricollega a quell'antecedente.

A sua volta, la regola di carattere generale è frutto di induzione; ossia dell'osservazione di un certo numero di casi concreti omogenei in presenza dei quali si verifica sempre la medesima conseguenza.

Ma sia nel ragionamento abduttivo, che in quello deduttivo ed induttivo, ciò che consente di collegare le premesse alle conclusioni del ragionamento è il complesso di criteri d'inferenza che, come vedremo meglio in seguito, entrano nel processo o attraverso il parere di un esperto, o fanno parte del patrimonio di conoscenze universali.

La validità del ragionamento probatorio dipende esclusivamente dall'affidabilità della regola, o del criterio d'inferenza, utilizzato. Possiamo affermare di essere in presenza di una dimostrazione giudiziaria irrefutabile solo quando abbiamo utilizzato un criterio d'inferenza avente piena validità, ossia che non è mai stato smentito 1.

@2. Ma quali sono i criteri d'inferenza?

A tale categoria appartengono certamente le leggi della logica (principio di non contraddizione, principio di uguaglianza, principio del terzo escluso) e le leggi scientifiche (di tipo universale o statistico).

Più controversa è l'appartenenza alla categoria dei criteri d'inferenza delle massime d'esperienza, dellePage 81 indagini massmediologiche, dei risultati di studi socio-criminologici, delle razionalizzazioni empiriche.

Per massime d'esperienza s'intendono quelle enunciazioni o giudizi ipotetici di carattere generale, che sono indipendenti dal caso concreto oggetto di giudizio, acquisiti con l'esperienza e dotati di autonomia rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono desunti 2.

La loro pratica utilità si coglie sul piano della semplificazione probatoria: ciò che è sperimentato dall'esperienza in un certo numero di casi non dovrà essere più oggetto di prova, ma diventa esso stesso criterio di valutazione delle risultanze processuali.

Sulla validità delle massime d'esperienza si sono appuntate non di meno le critiche della dottrina 3: innanzitutto si è osservato che la natura non è mai uguale a sé stessa, e ciò è tanto più vero che se si prendono in esame comportamenti umani, sicché appare arbitrario, al verificarsi di un certo evento umano omogeneo rispetto ai casi che hanno generato la massima d'esperienza, inferire che anche nel caso sub specie si è verificata la medesima conseguenza constatata nella regola d'esperienza.

Oltretutto critiche altrettanto pungenti riguardano il momento della genesi, modifica ed estinzione delle massime d'esperienza.

È pacifico che non esiste un albo delle massime e che esse, per loro stessa definizione, sono frutto dell'osservazione empirica, sicché non è possibile stabilire se una massima sia ancora valida o se invece essa sia stata superata dall'evolversi dell'esperienza umana.

Inoltre, sorge spontanea la domanda se l'esperienza generatrice delle massime sia quella del singolo giudice chiamato a giudicare o della collettività in un dato momento storico.

E ancora ci si chiede quali e quanti siano i casi omogenei necessari per poter formulare una massima d'esperienza e quali siano i criteri per ponderare l'omogeneità dei casi posti a base della massima d'esperienza.

A tali interrogativi, tanto più pressanti ed attuali se si considera che il nostro ordinamento processuale penale è improntato al principio di legalità (art. 111 comma primo Cost.), non è possibile dare una risposta certa e univoca.

Così come rimane irrisolto il problema della scelta della massima d'esperienza nell'ipotesi di conflitto di massime tutte astrattamente applicabili al caso concreto 4.

Per tali ragioni, parte della dottrina stigmatizza l'impiego delle massime d'esperienza nel processo penale, arrivando a negare la stessa struttura sillogistica del ragionamento giudiziale.

Giudicare significherebbe secondo tale orientamento attribuire un pregiudicato ad un soggetto, servendosi della conoscenza delle cose, dell'esperienza tecnico-giuridico, della capacità ermeneutica e della volontà del legislatore 5.

Altra dottrina propone piuttosto di limitare le massime a poche regole universalmente riconosciute 6.

Recenti contributi dogmatici 7 optano per una classificazione degli elementi utilizzabili per la decisione in due categorie di differente forza probatoria a seconda dei criteri d'inferenza adottati: le prove in senso stretto e gli indizi. Appartengono alla prima categoria di elementi probatori, ossia quelle fonti di conoscenza, che per dimostrare l'esistenza di un determinato fatto (c.d. risultato di prova) impiegano criteri d'inferenza che consentono di passare dal factum probans al factum probandum in termini di univocità o di elevata probabilità: tali criteri d'inferenza sono le regole della logica formale e le leggi scientifiche. Viceversa, esistono elementi che dimostrano l'esistenza di enunciati fattuali in termini di mera possibilità, di verosimiglianza, di non implausibilità: tali sono gli elementi indiziari. I criteri d'inferenza che essi utilizzano sono costituiti da massime d'esperienza i cui risultati non sono prove, ma indizi in senso stretto, che hanno una forza probatoria minore rispetto alle prove in senso stretto.

Vi è infine un quarto orientamento dottrinario, che parte dalla constatazione dell'irrinunciabilità delle massime d'esperienza, per giungere alla conclusione che il giudice può far uso anche di quest'ultimi criteri d'inferenza, a condizione che sia verificata la solidità, la forza probante della massima d'esperienza e la sua pertinenza alle risultanze processuali 8.

Sulla medesima lunghezza d'onda si collocano gli studi di autorevole dottrina che ha messo in evidenza come nell'interpretazione della norma penale, esista un rapporto circolare tra fattispecie astratta e fatto concreto, ricostruito sulla scorta delle risultanze probatorie, nel senso che il fatto concreto, per essere di rilievo penale, deve essere assumibile nel tipo astratto e quest'ultimo per essere correttamente interpretato necessita di un continuo collegamento con i fatti concreti. In questo rapporto circolare s'inseriscono i criteri d'inferenza ed, in particolare, le massime d'esperienza che trovano applicazione sia nella fase della precomprensione della fattispecie astratta, ossia d'individuazione del significato degli elementi costitutivi di fattispecie, sia nel momento di valutazione degli elementi probatori; in altre parole, è grazie alle massime d'esperienza se possiamo ricostruire il fatto e ricollegarlo alla fattispecie astratta 9.

@3. La posizione della giurisprudenza: cenni a talune puntualizzazioni in merito al ricorso alle massime d'esperienza

La giurisprudenza di legittimità, in diverse pronunce, ha affermato che il giudice può ricorrere anche alle massime d'esperienza per la ricostruzione dei fatti, purché siano dotate di empirica plausibilità e siano coerenti con le risultanze processuali 10.

Il baricentro del problema viene dunque spostato sui limiti d'utilizzo delle massime d'esperienza, individuati dalla giurisprudenza nel prudente apprezzamento del giudice nella scelta della massima, coniugato con l'obbligo di adeguata motivazione circa la pertinenza della stessa al caso concreto.

Il tema dell'impiego delle massime d'esperienza, nel momento valutativo della prova, è stato al centro dell'attenzione del giudice di legittimità, investito della questione in relazione al fenomeno della criminalità organizzata. In assenza di criteri tipizzati, si è fatto ricorso a regole di giudizio tratte dall'esperienza processuale e da indagini di tipo socio-criminologico, per tracciare il discrimen tra imprenditore vittima ed imprenditore colluso con l'organizzazione mafiosa.

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Sul punto la S.C. ha ribadito l'ammissibilità del ricorso alle massime d'esperienza, purché siano aderenti alle risultanze probatorie e ha individuato la linea di confine tra la soggiacenza e la contiguità nel fine perseguito dall'imprenditore: sarà da considerarsi vittima, chi accetta di venire a patti col sodalizio mafioso per evitare conseguenze dannose alla propria impresa, mentre si colloca in un'area di contiguità compiacente...

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