Corte di Cassazione Penale sez. V, 8 marzo 2018, n. 10498 (ud. 16 gennaio 2018)

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giur giur
Rivista penale 6/2018
LEGITTIMITÀ
6/2018 Rivista penale
LEGITTIMITÀ
del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (sez.
V, n. 45672 del 1 ottobre 2015, Lubrina, Rv. 265510). Le
specif‌iche connotazioni delle operazioni dolose, poi, offro-
no fondamento al giudizio di prevedibilità dell’emersione
delle operazioni stesse e, di conseguenza, dell’attivazione
delle iniziative risarcitorie e/o sanzionatorie destinate a
sfociare nel depauperamento e, quindi, nel dissesto della
società: in forza di tale giudizio di prevedibilità, la natura
preterintenzionale della fattispecie di fallimento cagio-
nato da operazioni dolose rende ragione della riconduci-
bilità di operazioni del genere nel paradigma punitivo di
cui all’art. 223, secondo comma, n. 2, L. fall. Si può con-
cludere, pertanto, nel senso che le operazioni dolose in-
tegranti la fattispecie di cui all’art. 223, secondo comma,
n. 2, L. fall. possono anche essere tali da non determinare
un immediato depauperamento della società, qualora la
realizzazione delle operazioni stesse si accompagni alla
prevedibilità del dissesto come effetto della condotta anti-
doverosa, nel «prevedibile caso di accertamento dei reati»
(sez. V, n. 41055 del 4 luglio 2014, Crosta, in motivazione).
E difatti, con principio che deve essere ribadito in questa
sede, si è condivisibilmente affermato che integra il delit-
to di causazione del fallimento per effetto di operazioni
dolose, ai sensi dell’art. 223, comma secondo, n. 2, L. fall.
il meccanismo di frode f‌iscale realizzato attraverso l’emis-
sione di fatture per operazioni inesistenti e la costituzione
di apposite società f‌ittizie f‌inalizzate ad ottenere liquidità
con gli anticipi bancari e la detrazione dell’iva sulle merci
acquistate e collocate sul mercato a prezzi concorrenziali
la cui interruzione abbia provocato il tracollo f‌inanziario
e dunque il fallimento della società, potendo il reato falli-
mentare concorrere con quello tributario per diversità del
bene tutelato, dell’elemento oggettivo e di quello soggetti-
vo (sez. V, n. 40009 del 23 aprile 2014, Conti, Rv. 262212).
Trattandosi di reato preterintenzionale, il fallimento non
deve necessariamente essere voluto quale conseguenza
della condotta, sicchè non sussiste contrasto logico tra
compimento di operazioni dolose (nella specie emissione
di fatture per operazioni inesistenti), per effetto delle
quali sia stato cagionato il fallimento e interesse alla
società poi fallita, stante la diversità concettuale tra l’ele-
mento psicologico delle predette operazioni e il rapporto
causale con il fallimento stesso, ben potendo coesistere la
mera consapevolezza di quest’ultimo quale possibile esito
(anche) della propria condotta, e quindi l’assunzione del
relativo rischio, con un soggettivo interesse ad esiti meno
infausti. (sez. I, n. 3942 del 13 dicembre 2007, dep. 2008,
Muratori ed altro, Rv. 238367). Pertanto, il reato sussiste
anche se la condotta incriminata sia stata posta in essere
solo allo scopo di realizzare una frode f‌iscale, risolvendosi
pur sempre quest’ultima in un prof‌itto, certamente ingiu-
stif‌icato.
3. Anche nel caso oggi sottoposto al Collegio, così come
nella sentenza richiamata da ultimo, i giudici di merito
hanno correttamente evidenziato che oggetto dei fatti
contestati al ricorrente è la circostanza di avere determi-
nato il fallimento della società per effetto di operazioni
dolose costituite dal meccanismo di frode f‌iscale, ricostru-
ito poi oggettivamente e documentalmente dagli accerta-
menti f‌iscali. Il reato di bancarotta impropria, contestato
agli imputati, trova fondamento proprio nella diretta cor-
relazione causale tra il meccanismo di frode f‌iscale (rea-
lizzato dagli imputati attraverso l’emissione di fatture per
operazioni inesistenti e la successiva annotazione nelle
scritture contabili) e lo stato di decozione fallimentare
della società amministrata, conseguente all’accertamento
degli illeciti f‌iscali ed alla loro contestazione. È evidente
che nella nozione di operazioni dolose di cui all’articolo
223, n. 2 della legge fallimentare rientrano, pertanto, i fat-
ti costituenti reato.
Nella fattispecie in esame, il reato di cui all’art. 223,
comma 2, n. 2, seconda parte, L. fall. può dirsi integrato
senza dubbio, essendo evidente che le operazioni dolose
e illecite commesse dagli imputati quali amministratori
della società fallita, consistite nell’emissione di false fat-
ture per oltre sei milioni di euro, annotate nelle scritture
contabili per ottenere l’abbattimento dell’imponibile e
creare un credito IVA nelle relative dichiarazioni f‌iscali,
abbiano sottoposto la società al rischio del tutto prevedi-
bile di accertamenti f‌iscali, all’esito dei quali le sanzioni
corrispondenti agli avvisi di accertamento, producendo
debiti per oltre due milioni di euro, hanno determinato
il dissesto e la successiva dichiarazione di fallimento. La
contestazione, contrariamente a quanto dedotto dal ri-
corrente, si riferisce esattamente al reato di bancarotta
impropria da operazioni dolose, descrivendo ampiamente
la condotta degli imputati ed il nesso con il fallimento. I
giudici d’appello hanno anche adeguatamente valutato la
sussistenza della prevedibilità del dissesto in seguito alla
realizzazione di condotte fraudolente reiterate e di così im-
portante entità. Anche perchè deve ritenersi condivisibile
il principio secondo cui, in tema di fallimento determinato
da operazioni dolose, che si sostanzia in un’eccezionale
ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l’onere
probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione
della consapevolezza e volontà dell’amministratore della
complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei
suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i propri
doveri a fronte degli interessi della società, nonché dell’a-
stratta prevedibilità dell’evento di dissesto quale effetto
dell’azione antidoverosa, non essendo invece necessarie
la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare
(sez. V, n. 38728 del 3 aprile 2014, Rampino, Rv. 262207;
sez. V, n. 17690 del 18 febbraio 2010, cit.). (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE PENALE
SEZ. V, 8 MARZO 2018, N. 10498
(UD. 16 GENNAIO 2018)
PRES. FUMO – EST. TUDINO – P.M. PERELLI (DIFF.) – RIC. S. ED ALTRA
Violazione di domicilio y Privata dimora y Luo-
ghi normalmente destinati ad attività di lavoro, di
studio e di svago y Ai quali i terzi possono accede-
re senza preventivo consenso dell’avente diritto y
Rilevanza y Esclusione y Fattispecie di esclusione
della sussistenza del reato di violazione di domi-
cilio in un caso in cui la condotta posta in essere
dagli imputati era consistita nell’ingresso arbitra-
rio, a scopo dimostrativo, nei locali di un istituto
privato di istruzione.
. Ai f‌ini della conf‌igurabilità del reato di violazione di
domicilio (art. 614 c.p.), non possono essere conside-
rati luoghi di privata dimora quelli normalmente desti-
nati ad attività di lavoro, di studio e di svago, ai quali
chiunque possa accedere senza necessità di preventivo
consenso da parte dell’avente diritto, nulla rilevando
che in essi possano anche svolgersi occasionalmente
atti della vita privata, ferma restando, tuttavia, l’opera-
tività della tutela penale con riguardo alle parti di detti
luoghi (quali, ad esempio, retrobottega, bagni privati
o spogliatoi), che abbiano eventualmente assunto le
caratteristiche proprie dell’abitazione in quanto desti-
nate anche allo svolgimento di atti della vita privata in
modo riservato e con preclusione dell’accesso da parte
di estranei. (Nella specie, in applicazione di tali princi-
pii, è stata esclusa la sussistenza del reato di violazione
di domicilio in un caso in cui la condotta posta in esse-
re dagli imputati era consistita nell’ingresso arbitrario,
a scopo dimostrativo, nei locali di un istituto privato
di istruzione). (Mass. Redaz.) (c.p., art. 610; c.p., art.
614) (1)
(1) Nello stesso senso sulla def‌inizione di privata dimora si veda
Cass. pen., sez. un., 22 giugno 2017, n. 31345, in questa Rivista 2017,
833, con nota di D. GIANNELLI, Furto in abitazione e nozione di
“privata dimora”: commento a Cass. Sezioni Unite n. 31345/2017.
Sugli elementi identif‌icativi del reato di violenza privata si veda Cass.
pen., sez. V, 8 febbraio 2011, n. 4526, ivi 2012, 243.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza del 20 giugno 2016, la Corte d’appel-
lo di Milano ha confermato la decisione del Tribunale in
sede del 9 dicembre 2015 con la quale gli imputati sono
stati condannati alla pena di giustizia in ordine ai reati di
violazione di domicilio e violenza privata per essersi intro-
dotti in un istituto scolastico CEPU, ed essersi ivi tratte-
nuti contro la volontà dei titolari, interrompendo l’attività
didattica ed esponendo dalle f‌inestre uno striscione, nel
contesto di manifestazioni non autorizzate di protesta
contro il f‌inanziamento pubblico delle scuole private.
2. Avverso la sentenza, hanno proposto ricorso, per
mezzo del difensore, gli imputati.
2.1 Con un primo motivo, hanno dedotto inosservanza e
falsa applicazione della legge penale e relativi vizi di mo-
tivazione per avere il giudice di merito ritenuto che l’atti-
vità di manifestazione non violenta, portata all’interno di
un istituto privato, integrasse il delitto di cui all’art. 610
c.p., in assenza di qualsivoglia forma di coercizione posta
in essere dai manifestanti, non evidenziata in sentenza e
comunque non sorretta dal necessario elemento soggetti-
vo. Hanno, altresì, contestato la ritenuta sussistenza del
delitto di violazione di domicilio per non potersi annove-
rare l’istituto scolastico tra i luoghi oggetto di tutela della
norma incriminatrice contestata. (Omissis)
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è fondato, nei limiti di cui di seguito.
2. Il motivo, con il quale è stata denunciata l’erronea
applicazione della legge penale in relazione all’ingresso
degli imputati nei locali dell’istituto d’istruzione, deve es-
sere accolto.
2.1. ln merito alla tutela del domicilio, questa Corte,
nella massima espressione nomof‌ilattica, ha recentemente
affermato che ai f‌ini della conf‌igurabilità del reato previsto
dall’art. 624 bis c.p., rientrano nella nozione di privata dimora
esclusivamente i luoghi nei quali si pongono in essere, non oc-
casionalmente, atti della vita privata, e che non siano aperti
al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare,
compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale
(sez. un., n. 31345 del 23 marzo 2017, D’Amico, Rv. 270076).
Le Sezioni Unite hanno, in particolare, rilevato come l’espres-
sione contenuta nell’art. 624-bis c.p. «in un edif‌icio o in altro
luogo destinato in tutto o in parte, a privata dimora» debba
essere riferita ad un luogo che sia stato funzionalmente de-
stinato, in modo apprezzabile sotto il prof‌ilo cronologico, allo
svolgimento di atti della vita privata, seppur non solo della
vita familiare e intima. In tale nozione vanno conseguente-
mente ricompresi i luoghi che, ancorché non destinati allo
svolgimento della vita familiare o domestica, assumano, co-
munque, caratteristiche d’intimità e riservatezza.
2.2. L’estensione dell’ambito di applicabilità della fat-
tispecie incriminatrice anche a luoghi che non possano
considerarsi abitazione in senso stretto deriva, da un lato,
dalla necessità di superare le incertezze manifestatesi in
giurisprudenza in ordine alla def‌inizione della nozione di
abitazione e, dall’altro, dall’esigenza di tutelare l’individuo
anche nel caso in cui compia atti della vita privata al di
fuori dell’abitazione. In sintonia con la ratio della norma,
deve, tuttavia, trattarsi di luoghi che abbiano le stesse ca-
ratteristiche dell’abitazione in termini di riservatezza e,
conseguentemente, di non accessibilità, da parte di terzi,
senza il consenso dell’avente diritto.
2.3. Siffatta interpretazione della norma è conforme ai prin-
cipi enucleabili, in tema di privata dimora, dalla giurispruden-
za costituzionale (Corte costituzionale n. 135 del 2002 e n. 149
del 2008), che ha inquadrato la libertà domiciliare nel sistema
delle libertà fondamentali, riconoscendole «una valenza essen-
zialmente negativa, concretandosi nel diritto di preservare da
interferenze esterne, pubbliche o private, determinati luoghi in
cui si svolge la vita intima di ciascun individuo».

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