Corte di Cassazione Penale sez. V, 15 marzo 2018, n. 11956 (ud. 7 dicembre 2017)
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giur giur
Rivista penale 6/2018
LEGITTIMITÀ
6/2018 Rivista penale
LEGITTIMITÀ
che ne è derivato. Né può affermarsi, come ha sostenuto
il ricorrente, che la confisca abbia natura recuperatoria o
risarcitoria, se non nei limiti che si sono appena tracciati.
Lo stesso art. 240, poi, precisa che non può operarsi la
confisca sulle cose o sui beni che appartengano a persona
estranea al reato. Così perimetrando ancor più il suo am-
bito sia sul piano oggettivo, sia sul piano soggettivo: posso-
no (si discute qui di un caso di confisca facoltativa) essere
confiscate le cose ed i beni che hanno costituito il profitto
del reato e che appartengono a chi l’ha commesso.
Senza, pertanto, che sia consentito pervenire ad alcu-
na forma di confisca di cose e beni che non abbiano costi-
tuito il diretto profitto del delitto o che siano pervenuti
nella proprietà di terzi estranei al delitto stesso.
3 - Così che resta del tutto improprio il riferimento,
operato dalla pubblica accusa ricorrente, all’applicazione
dell’art. 110 codice penale, il concorso di persone nel reato,
perchè se è vero che ciò soddisfa il perimetro soggettivo
della confisca prevista dall’art. 240 c.p., colpendo chi non è
estraneo al reato, è altrettanto vero che ne travalica l’ambi-
to oggettivo, qualora si intendano confiscare beni del coim-
putato che non abbia tratto personale profitto dal reato.
Non è possibile, in altri termini, utilizzare l’art. 110 c.p.
fuori dal proprio ambito che è quello di far soggiacere alla
pena stabilita per il reato tutti coloro che hanno concorso
nel commetterlo e che attiene pertanto alla risposta san-
zionatoria e non al recupero del profitto del reato che ha
una sua, diversa e intrasmissibile, specificità.
E, difatti, mentre questa Corte ha ammesso la sussi-
stenza del vincolo di solidarietà passiva fra i coimputati nel
caso della confisca per equivalente, proprio fondando le
proprie decisioni sulla natura sanzionatoria di tale diversa
forma di apprensione sui beni (da ultimo ex plurimis: sez.
VI, n. 17713 del 18 febbraio 2014, Argento, Rv. 259338; sez.
II, n. 5553 del 9 gennaio 2014, Clerici, Rv. 258342; sez. V, n.
25560 del 20 maggio 2015, Gilardi, Rv. 265292) ha distinto,
poi, tale ipotesi dalla confisca diretta prevista dall’art. 240
cod. pen. - che non è parte della risposta sanzionatoria alla
commissione del reato ma consente invece, per la sua di-
versa natura di misura di sicurezza, l’apprensione del pro-
fitto ricavato dal medesimo al fine di evitare che resti nella
disponibilità di chi ha commesso il fatto - chiarendo che,
in tale diversa evenienza, sono passibili di confisca solo le
cose ed i beni che abbiano costituito il profitto diretto ed
immediato degli stessi (così precisa proprio la pronuncia
delle Sez. un., Lucci, citata, come si vedrà non a proposito,
dal ricorrente, n. 31617 del 26 giugno 2015 Rv. 264436; e
ribadisce la sez. II, con la sentenza n. 53650 del 5 ottobre
2016, Maiorano, Rv. 268854).
4 - La ricorrente pubblica accusa perviene alla contra-
ria soluzione solo perchè equivoca su tale distinzione tan-
to da citare, a sostegno della sua tesi, pronunce di questa
Corte che attengono, appunto, non alla confisca in oggetto
ma alla confisca per equivalente.
Quanto alle sentenze delle Sezioni unite, Gubert e
Lucci (la prima, sez. un., n. 10651 del 30 gennaio 2014 Rv.
258646; la seconda, sez. un., n. 31617 del 26 giugno 2015,
Rv. 264436), ne viene fatta menzione nel ricorso a soste-
gno della tesi che esse non propugnano affatto.
Nella sentenza Gubert, le Sezioni unite fissano alcuni
principi di diritto, in tema di distinzione fra il patrimo-
nio della società e quello del suo legale rappresentante,
quando siano commessi illeciti tributari, che attengono ad
un’ipotesi di confisca per equivalente e non ad una confi-
sca diretta.
Analogamente, nella sentenza Lucci, le Sezioni uni-
te, dopo avere precisato che il profitto sottoponibile alla
confisca prevista dall’art. 240 c.p. è solo quello diretto ed
immediato (Rv. 264436, sopra citata), si limitano a preci-
sare che (Rv. 264437), qualora il prezzo o il profitto c.d.
accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro,
la confisca delle somme depositate su conto corrente ban-
cario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere
qualificata come confisca diretta e, in considerazione della
natura del bene, non necessita della prova del nesso di
derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto
della ablazione e il reato.
Affermazione che non muta certo la natura della con-
fisca diretta ma si limita ad affermare che qualora il pro-
fitto del delitto sia rappresentato da denaro, come pure
è nell’odierno caso concreto, l’apprensione del medesimo
da un conto bancario di chi tale delitto ha consumato co-
stituisce un’ipotesi di confisca diretta e non per equiva-
lente. Sempre però che sia stato tale imputato ad avere
incamerato tale profitto, vedendosi accrescere il proprio
patrimonio monetario.
5 - Del resto, se si dovesse, invece, ritenere fondata la
tesi del ricorrente, volta a consentire la confisca diretta
delle somme di denaro presso qualsiasi coimputato del
reato, a prescindere dall’effettivo vantaggio da questi
conseguito, finirebbe per scolorire del tutto la distinzione
fra confisca diretta e confisca per equivalente, divenendo
quindi, quando si tratti di vincolare somme di denaro, del
tutto superfluo l’elenco di reati per i quali la seconda è
consentita (che, come noto, non contempla quello di ban-
carotta), diversamente dalla prima che è di generale ap-
plicazione.
6 -Il ricorso della pubblica accusa va pertanto rigettato.
(Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE PENALE
SEZ. V, 15 MARZO 2018, N. 11956
(UD. 7 DICEMBRE 2017)
PRES. VESSICHELLI – EST. BRANCACCIO – P.M. LIGNOLA (CONF.) – RIC. M. ED ALTRO
Reati fallimentari y Bancarotta fraudolenta y
Bancarotta impropria y Fallimento causato da ope-
razioni dolose y Operazioni dolose y Nozione.
. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 223,
comma secondo, n. 2, L.F., costituiscono “operazioni do-
lose” alle quali far risalire la causazione del fallimento
anche quelle che, pur senza essere direttamente ed im-
mediatamente produttive di danno, siano però tali da
creare i presupposti di un prevedibile dissesto, come,
in particolare, può verificarsi nel caso di emissione di
fatture per operazioni inesistenti, essendo ragionevol-
mente prospettabile che da una tale condotta derivi
l’accertamento dell’illecito e la conseguente esposizio-
ne debitoria della società nei confronti del fisco. (Mass.
Redaz.) (r.d. 16 marzo 1942, n. 267, art. 223) (1)
(1) Si richiamano, in senso conforme, le sentenze, citate in parte
motiva: Cass. pen., sez. V, 5 gennaio 2017, n. 533; Cass. pen., sez. V, 17
novembre 2015, n. 45672 e Cass. pen., sez. V, 17 marzo 2014, n. 12426,
tutte in www.latribunaplus.it. Per analoga fattispecie si veda Cass.
pen., sez. V, 2 ottobre 2014, n. 41055, ibidem.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d’appello
di Milano, all’udienza del 27 ottobre 2016, ha confermato
la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Milano, emessa con
rito abbreviato in data 4 giugno 2013, con la quale gli im-
putati L.M. e G.R. sono stati condannati alla pena di tre
anni di reclusione per il reato di bancarotta fraudolenta ai
sensi degli artt. 110 c.p., 223, comma 2, n. 2, e 219, comma
1, L. fall., per aver cagionato, attraverso operazioni dolose,
il fallimento della società E. s.r.l. della quale erano am-
ministratori di fatto, fallimento dichiarato con sentenza
del 28 aprile 2008. I fatti sono contestati in concorso tra
gli imputati e l’amministratore unico della società fallita,
M.S. (giudicata separatamente), ed attengono alla forma-
zione di false fatture per il valore di oltre sei milioni di
euro, che sono state annotate nelle scritture contabili, al
fine di abbattere l’imponibile e creare un credito IVA nelle
relative dichiarazioni fiscali. (Omissis)
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è infondato e deve essere, pertanto, riget-
tato.
2. Quanto al primo motivo, deve rammentarsi che l’i-
potesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale prevista
dall’art. 223, comma 2, n. 2, L. fall. incrimina le condotte
dell’amministratore (di diritto o di fatto) il quale abbia po-
sto in essere comportamenti dolosi i quali - concretandosi
in abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o
in un atto intrinsecamente pericoloso per l’andamento eco-
nomico finanziario della società - siano stati causa del fal-
limento (sez. V, n. 533 del 14 ottobre 2016, dep. 2017, Zac-
caria, Rv. 269019). Secondo la giurisprudenza di legittimità
(sez. V, n. 45672 del 1 ottobre 2015, Lubrina, Rv. 265510),
in tema di bancarotta ex art. 223, comma secondo, n. 2 L.
fall., le operazioni dolose che hanno cagionato il fallimento
devono comportare un depauperamento non giustificabile
in termini di interesse per l’impresa, laddove la nozione
di “operazione” postula una modalità di pregiudizio pa-
trimoniale discendente non già direttamente dall’azione
dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione,
occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore
complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa
societaria implicante un procedimento o, comunque, una
pluralità di atti coordinati all’esito divisato.
La giurisprudenza di legittimità ha poi chiarito che
le “operazioni dolose” rilevanti ai fini dell’integrazione
della fattispecie in esame possono anche non determi-
nare un’immediata diminuzione dell’attivo; si è detto, in-
fatti, che le operazioni dolose di cui alla norma in esame
possono consistere nel compimento di qualunque atto
intrinsecamente pericoloso per la salute economica e fi-
nanziaria dell’impresa e, quindi, anche in una condotta
omissiva produttiva di un depauperamento non giustifica-
bile in termini di interesse per l’impresa (sez. V, n. 12426
del 29 novembre 2013 - dep. 17 marzo 2014, P.G. e p.c. in
proc. Beretta e altri, Rv. 259997). La configurabilità della
fattispecie di fallimento cagionato da operazioni dolose è
stata affermata, così, anche in un caso per molti aspetti
sovrapponibile a quello oggetto di ricorso, con riferimen-
to a società che avevano emesso fatture nei confronti di
società c.d. “cartiere” nel quadro di una vicenda comune-
mente definita “truffa carosello”, osservandosi che poiché
«il meccanismo della emissione di fatture per operazioni
intracomunitarie inesistenti risponde ad una precisa fina-
lità di violazione delle norme tributarie nazionali (nella
prospettiva della generazione del credito di IVA, invece
non spettante, verso lo Stato) è altrettanto logico ritene-
re che il perpetuarsi della operazione in frode all’Erario
esponga (nel prevedibile caso di accertamento dei reati,
nella specie concretizzatosi) le società protagoniste, a
un dissesto di proporzioni tanto più rilevanti quanto più
elevato siano il fatturato interessato dalle frodi e la per-
centuale di incidenza dello stesso sull’intero movimento
di affari della società» (sez. V, n. 41055 del 4 luglio 2014,
Crosta, in motivazione). In tale ipotesi, le operazioni il-
lecite, in quanto tali, sono destinate non già a diminuire,
ma ad incrementare (sia pure contra ius) il patrimonio
sociale, sicché il fallimento è riconducibile ad esse poi-
ché - sul piano degli effetti di medio periodo e in ragione
della crescita esponenziale del debito (sez. V, n. 47621 del
25 settembre 2014 - dep. 18 novembre 2014, Prandini, Rv.
261684, in motivazione), una volta scoperte, determina-
no ineludibilmente - come accaduto anche nel caso degli
odierni ricorrenti - l’applicazione delle relative sanzioni.
Quanto all’elemento psicologico, il reato in esame si so-
stanzia, secondo la giurisprudenza dominante, in una
«eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterinten-
zionale» in relazione alla quale «esaurisce l’onere proba-
torio dell’accusa la dimostrazione della consapevolezza e
volontà della natura “dolosa” dell’azione, costitutiva del-
l’“operazione”, a cui segue il dissesto, in uno con l’astratta
prevedibilità dell’evento scaturito per effetto dell’azione
antidoverosa» (sez. V, n. 17690 del 18 febbraio 2010, Cassa
Di Risparmio di Rieti S.p.a., Rv. 247313-4-5; sez. V, n. 45672
del 1 ottobre 2015, Lubrina, Rv. 265510, in motivazione;
di recente, sulla natura preterintenzionale del reato, vedi
anche sez. V, n. 38728 del 3 aprile 2014, Rampino, Rv.
262207). Sicchè, nell’ipotesi di fallimento causato da ope-
razioni dolose non determinanti un immediato depaupe-
ramento della società, la condotta di reato è configurabile
quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni,
sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità
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