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AutoreCasa Editrice La Tribuna
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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. un., 6 ottobre 2009, n. 38691 (c.c. 25 giugno 2009). Pres. Gemelli - Est. Fiale - P.M. Palombarini (diff.) - Ric. Caruso

Misure di sicurezza - Patrimoniali - Confisca - Per equivalente - Delitto di peculato - Confisca del profitto del reato - Inammissibilità.

In riferimento al delitto di peculato, può disporsi la confisca per equivalente, prevista dall’art. 322 ter, comma 1, ultima parte, c.p., soltanto del prezzo e non anche del profitto del reato. (Mass. redaz.) (C.p., art. 322 ter.) (1).

    (1) La decisione delle S.U. nel dirimere il contrasto in essere in sede di legittimità, aderiscono all’indirizzo giurisprudenziale assolutamente prevalente. Si vedano i numerosi precedenti citati in motivazione. Si evidenzia che la Corte, facendo riferimento al tenore dell’art. 322 ter, comma 1, ultima parte, c.p., che limita inequivocabilmente la confisca per equivalente al solo «prezzo» del reato, ha constatato «l’impossibilità di pervenire ad una non consentita estensione in malam partem del dettato legislativo», pur rilevando, dopo un approfondito excursus della normativa nazionale ed internazionale in tema della confisca di valore, la necessità che il legislatore provveda a disciplinare in modo sistematico tutte le ipotesi di confisca obbligatoria e di confisca per equivalente, già previste con norme frammentarie e prive di coordinamento.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. 1. – Il G.I.P. del Tribunale di Roma, in data 20 maggio 2008, emetteva decreto di sequestro preventivo, ai sensi dell’art. 321, comma 2, c.p.p., in relazione all’art. 322 ter c.p., di beni intestati o nella disponibilità di Caruso Luciano, sino alla concorrenza dell’importo di euro 4.844.456,03, quale equivalente del profitto che si assumeva dallo stesso realizzato per effetto di condotte illecite, in danno dell’Inpdap, riconducibili alle previsioni degli artt. 81 cpv. e 314 c.p.

Il sequestro aveva ad oggetto beni diversi (saldo di conto corrente, automobile e quote societarie).

L’adozione di detto provvedimento si connetteva alle indagini esperite dalla Procura della Repubblica di Roma, per il delitto di peculato continuato – configurato a carico del Caruso e di tale Michielan Francesco Giuseppe [il primo quale legale rappresentante della «Ge.Fi Fiduciaria Romana» S.p.a. e presidente della società consortile (Ge.Fi. - Ciemme) costituita con la «Nuova Ciemme» S.p.a.; il secondo quale amministratore delegato della «Nuova Ciemme» S.p.a. e della società consortile, concessionaria - nel periodo 2002-2004 - della gestione di alcuni lotti del patrimonio immobiliare dell’Inpdap], perché, in violazione dell’art. 26 della Convenzione di gestione (che vietava alla società concessionaria di aprire conti correnti presso istituti diversi da quelli che effettuavano servizio di cassa per l’ente), avevano fatto transitare i flussi finanziari relativi alla commessa Inpdap (canoni di locazione e oneri accessori riscossi dagli inquilini) in un conto corrente bancario, non noto all’ente e quindi fuori da ogni possibilità di controllo, per poi farli confluire anche per la parte di spettanza dell’ente (segnatamente, per l’importo di euro 4.420.879,71) su altro conto corrente riconducibile ai predetti.

Al solo Caruso veniva altresì contestato di essersi appropriato di fondi depositati presso un conto corrente bancario utilizzato per la gestione di immobili dell’Inpdap per il periodo 1996-2002, nonostante la cessazione della convenzione di gestione, auto-liquidando fatture a favore della società concessionaria per un controvalore di 423.576,32 euro, eludendo così la procedura di controllo e pagamento di competenza dell’ente pubblico.

Sull’istanza di riesame presentata nell’interesse del Caruso, il Tribunale di Roma confermava il provvedimento di sequestro con ordinanza dell’8 luglio 2008.

Il Tribunale, in particolare, riteneva configurabile la qualità di incaricato di pubblico servizio in capo al Caruso, argomentando che la gestione del patrimonio immobiliare dell’Inpdap doveva essere considerata attività strettamente funzionale alle finalità pubbliche dell’ente, principali e non meramente accessorie, di erogazione di prestazioni in danaro ai suoi assistiti.

Ravvisava inoltre nei fatti il fumus del delitto di peculato contestato, sulla base di «palesi ed inequivoci» elementi di fatto desumibili dalla dettagliata informativa di p.g. e dalle dichiarazioni di un coindagato, assunte ai sensi dell’art. 392 c.p.p., non emergendo al contrario, dalle prospettazioni difensive, l’immediato rilievo della insussistenza del fumus stesso, anche in relazione all’elemento soggettivo del reato.

Secondo il Collegio, le dichiarazioni rilasciate dal Caruso alla polizia giudiziaria dimostrerebbero che costui intese attuare, trattenendo la somma di oltre 4 milioni di euro, una sorta di compensazione di crediti e debiti tra la società di gestione e l’Inpdap non prevista dalla convenzione di gestione e comunque tutta da verificare. L’utilizzazione di un conto corrente presso una banca di conoscenza dell’indagato (conto Master) ed in una zona geografica nella quale costui aveva propri interessi, aggirando così i controlli da parte dell’Inpdap, ignara della situazione, paleserebbe l’interesse personale perseguito dall’indagato.

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In riferimento alla contestazione di appropriazione indebita, il Tribunale rilevava che lo stesso Caruso aveva addotto di aver agito, nonostante la cessazione della convenzione, in una prospettiva di continuità di gestione – quanto alla mancata chiusura del conto corrente bancario dedicato alla conduzione della commessa – ed aveva ammesso la possibilità di errori e duplicazioni nel pagamento delle fatture, non smentendo pertanto i rilevi accusatori.

In ordine all’oggetto del sequestro, la difesa aveva eccepito l’inapplicabilità – in caso di peculato – del sequestro per equivalente del «profitto» del reato, finalizzato alla confisca, di cui al primo comma dell’art. 322 ter c.p., sull’essenziale rilievo che la formulazione letterale della norma considera come termine di raffronto il solo «prezzo» del reato.

Il Tribunale, invece, respingeva tale eccezione, richiamando la giurisprudenza di legittimità formatasi in tema di confisca ex art. 640 quater cod. pen e sostenendo che non vi era ragione per non estenderla anche al profitto del reato di peculato, ove si consideri il richiamo nell’art. 322 ter, comma 1, cod. pen. al peculato e al «profitto».

Circa l’entità del sequestro, il Collegio affermava che non spettano al tribunale del riesame «adempimenti estimatori», rimessi invece alla fase della confisca.

In relazione, infine, alla lamentata carenza di un accertamento preliminare riferito alla verifica di una possibile confiscabilità «diretta» di beni costituenti il prezzo o il profitto del reato, il Tribunale richiamava un recente orientamento di questa Corte Suprema (Sez. VI, n. 31692/2007) secondo il quale – qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali, ai sensi dell’art. 322 ter c,p., è prevista la confisca per equivalente, sia costituito da denaro – l’adozione del sequestro preventivo in vista dell’applicazione di detta misura non può essere subordinata alla verifica che il denaro sia confluito nella effettiva disponibilità dell’indagato giacché, altrimenti, si verrebbe a ristabilire la necessità di un nesso pertinenziale tra la res ed il reato, che la legge, con l’introduzione della confisca «per equivalente», ha escluso.

Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il difensore del Caruso, articolando tre doglianze con le quali lamenta:

a) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale per l’impossibilità di ricondurre, anche solo in astratto, il fatto contestato alla fattispecie di peculato.

Secondo la prospettazione difensiva, tale delitto non sarebbe configurabile, nella specie, in quanto la somma che si assume essere oggetto di peculato non sarebbe mai entrata nella disponibilità della società concessionaria, a causa di una considerevole morosità degli inquilini degli immobili gestiti. L’appropriazione di denaro sarebbe stata desunta dall’accusa solo da una mera posta contabile del rendiconto redatto all’atto della conclusione del rapporto tra l’Inpdap ed il gestore, che però non indicherebbe alcuna somma effettivamente esistente e disponibile.

La somma di oltre 4 milioni di euro rappresenterebbe, quindi, soltanto un credito dell’ente, liquidabile esclusivamente qualora la società concessionaria avesse incassato la somma di circa sette milioni di euro complessivamente dovuta dagli inquilini.

In conclusione, una corretta lettura del documento contabile redatto dall’indagato avrebbe impedito ictu oculi di configurare il reato di peculato.

b) Contrarietà del ragionamento giustificativo della decisione rispetto alle risultanze di atti processuali specificatamente indicati.

Si assume, in proposito, che il Tribunale del riesame avrebbe travisato, nella valutazione del fumus commissi delicti, la prova documentale ritualmente prodotta dall’indagato. Da tale documentazione emergerebbe appunto che, a fronte del credito dell’Inpdap, l’importo di 4.420.879,71 euro non costituisce una somma entrata nella disponibilità effettiva del gestore, a causa della mancata riscossione dei canoni locatizi.

Viene richiamato, a sostegno della formulazione di detta doglianza, il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di sequestro probatorio, secondo cui integra il vizio di cui al novellato art. 606, comma primo, lett. e) c.p.p., la contraddittorietà del ragionamento giustificativo della decisione rispetto alle risultanze di cui agli atti del processo specificamente indicati dal ricorrente.

c) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla confisca per equivalente disciplinata dall’art. 322 ter cod. pen.

Il ricorrente lamenta, infine, la violazione dell’art. 322 ter cod. pen. poiché l’istituto della...

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