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AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine993-1014

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@CORTE DI CASSAZIONE Sez. un., 10 luglio 2008, n. 28605 (ud. 24 aprile 2008). Pres. Carbone - Est. Fiale - P.M. Esposito (diff.) - Ric. Di Salvia

Stupefacenti - Coltivazione - Coltivazione di tipo domestico - Destinazione ad uso personale - Rilevanza penale - Ragioni. Stupefacenti - Coltivazione - Coltivazione di tipo domestico - Destinazione ad uso personale - Rilevanza penale - Valutazione del giudice - Inoffensività della condotta - Nozione.

Costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73; L. 21 febbraio 2006, n. 49) (1).

Ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità della so-stanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73; L. 21 febbraio 2006, n. 49) (2).

    (1) Stesso principio di diritto è stato affermato da altra sentenza emessa in pari data (Cass. pen., Sez. Un., 10 luglio 2008, Valletta, inedita). Si rinvia ai numerosi precedenti citati in motivazione che rappresentano esaurientemente i contrapposti orientamenti giurisprudenziali sorti in argomento.

    (2) Si veda Cass. pen., sez. IV, 8 marzo 2006, Fanfani, in CED - Archivio penale RV 233665, secondo la quale la coltivazione di piante da stupefacente può essere ritenuta non punibile solo se, una volta esclusa la destinazione ad uso di terzi, risulti in concreto inoffensiva, cioè inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato. Ciò che può verificarsi, ad esempio, nel caso della coltivazione di una sola pianta da cui possa estrarsi un esiguo quantitativo di sostanza stupefacente insufficiente a provocare un apprezzabile stato stupefacente. Dello stesso tenore Cass. pen., sez. IV, 7 novembre 2002, Cantini, pubblicata per esteso in questa Rivista 2003, 125 e in Cass. pen. 2003, 3531 con nota di NATALINI e Cass. pen., sez. IV, 22 settembre 2000, Fiorone, in CED - Archivio penale RV 217258.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - La Corte di appello di Milano, con sentenza del 5 dicembre 2003, ha confermato la sentenza resa in data 25 marzo 2003 dal Tribunale di Vigevano in composizione monocratica, che aveva dichiarato Di Salvia Vincenzo colpevole del reato di cui:

- all'art. 73, commi 1 e 4, del D.P.R. n. 309/1990 [perché, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17, coltivava n. 7 piante di cannabis indica con titolo medio dello 0,21% pari a grammi 2,13 di principio attivo puro - acc. in Candia Lomellina il 31 agosto 2001] e lo aveva condannato - ritenuta l'ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, del D.P.R. n. 309/1990 e previo riconoscimento di circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva - alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi quattro di reclusione ed euro mille di multa, disponendo la confisca e distruzione di quanto in sequestro.

Le piante tratte in sequestro erano risultate di cannabis e l'imputato aveva ammesso il fatto, precisando che il raccolto era destinato al suo esclusivo uso personale.

In punto di diritto, la Corte meneghina ha osservato che il reato contestato ha natura di reato di pericolo, alla cui configurabilità non osta l'eventuale insufficiente grado di tossicità del raccolto (precisando, peraltro, che nel caso di specie «la sostanza era idonea ed aveva efficacia drogante anche se nel momento del sequestro le piante non erano in piena maturazione»), né la dimensione ridotta (domestica) della coltivazione («tale reato non può essere escluso nel caso di coltivazione limitata in quanto trattasi di reato di pericolo che si perfeziona con la coltivazione volontariamente attuata dall'imputato per consumo proprio e forse di altri in quanto non è provato che fosse solo destinata ad uso personale. Non può considerarsi semplice detenzione per uso personale in quanto trattasi di coltivazione destinata anche a terzi, anche se di modesta quantità»).

Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, deducendo:

- inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale [art. 606, comma primo, lett. c) c.p.p.].

Il ricorrente, in particolare, prospetta che la condotta accertata non costiuirebbe una «coltivazione» in senso tecnico, perché rudimentale e limitata ad un numero esiguo di piante con destinazione all'uso personale, in difetto della prova (che sarebbe stato onere del P.M. fornire) di una destinazione diversa, e comunque che la totale assenza di principio attivo rinvenuto nella sostanza sequestrata farebbe escludere la sussistenza del reato contestato.

Tali rilievi indurrebbero a ritenere l'inidoneità della condotta accertata a porre in pericolo il bene tutelato penalmente dal D.P.R. n. 309 del 1990, sicché residuerebbe il mero illecito amministrativo ex art. 75 dello stesso D.P.R.

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Il coordinatore dell'Ufficio esame preliminare dei ricorsi ha rilevato che, in merito alla configurabilità del delitto contestato all'imputato, sussiste un persistente contrasto giurisprudenziale e, conseguentemente, ha trasmesso il ricorso al primo presidente a norma dell'art. 618 c.p.p.

Il primo presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.

MOTIVI DELLA DECISIONE. 1. - La questione controversa sottoposta all'esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire «se la condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, sia penalmente rilevante anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale».

  1. - In relazione a tale questione esiste effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

    2.1. - L'orientamento prevalente ritiene che la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti sia penalmente illecita, quale che sia la destinazione del raccolto.

    La destinazione ad uso personale non può assumere alcun rilievo, sia perché difetta il nesso di immediatezza della coltivazione con l'uso personale, sia perché non può determinarsi a priori la potenzialità della sostanza stupefacente ricavabile (v. Cass., sez. IV, 23 marzo 2006, n. 10138, Colantoni).

    In tal senso - all'esito del referendum abrogativo del 1993 - si è pronunciata, per la prima volta, la sez. IV con la sentenza 5 maggio 1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli, affermando il principio secondo il quale «l'attività di coltivazione costituisce reato a prescindere dall'uso che il coltivatore intende fare della sostanza ricavabile, dal momento che la coltivazione e la detenzione costituiscono due condotte del tutto distinte e l'art. 75 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 in applicazione dell'esito del referendum, non fa alcun riferimento all'attività di coltivazione» (principio ribadito dalla stessa sez. VI con le sentenze 5 gennaio 1997, n. 100, Garcea e 5 aprile 2000, n. 4209, P.G. in proc. Reile).

    Ai fini della verifica circa la sussistenza del reato di coltivazione abusiva non rilevano la quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità o la quantità di sostanza drogante da esse estraibile, poiché la previsione incriminatrice è rivolta a vietare la produzione di specie vegetali idonee a produrre l'agente psicotropo, indipendentemente dal principio attivo estraibile (Cass., sez. IV, 29 settembre 2004, n. 46529, Aspri ed altro).

    La modesta estensione della coltivazione, la qualità delle piante ed il loro grado di tossicità possono al più rilevare solo ai fini della considerazione della gravità del reato e della commisurazione della pena (vedi Cass.: sez. IV, 6 febbraio 2004, n. 4836, Felsini e sez. VI, 9 giugno 2004, n. 31472, De Rimini).

    Ancora la IV sezione, con la sentenza 5 febbraio 2001, n. 4928, Croce, ha osservato che il differente trattamento riservato alla coltivazione rispetto alla mera detenzione si fonda sulla valutazione di maggiore pericolosità ed offensività insita nell'essere la coltivazione, la produzione e la fabbricazione di sostanze stupefacenti (sempre penalmente sanzionate ancorché non qualificate da una precisa finalità di commercio) attività che sono tutte rivolte alla creazione di nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio nazionale e rischio per la pubblica salute e incolumità.

    Il legislatore - delimitando i confini della liceità giuridica in base al criterio dell'impiego dello stupefacente per il proprio esclusivo bisogno soltanto a quelle determinate forme di condotta che sono menzionate nell'art. 75 del D.P.R. n. 209/1990 (le quali, se connotate dal fine di uso personale della sostanza, restano fuori dal campo di repressione penale) - non ha voluto sottrarre alla generale disciplina proibizionistica il fatto di chi, invece, coltiva e fabbrica la droga e ciò allo scopo di colpire, in vista della tutela di superiori interessi collettivi, una delle fonti di produzione delle sostanze, indipendentemente dall'accertamento dell'esclusività della destinazione all'uso personale che alle stesse venga data, per l'immanente pericolo, non altrimenti controllabile, di dilatazione e propagazione del degenerativo ed antisociale fenomeno delle tossicomanie.

    Alla stregua delle considerazioni anzidette è stata disattesa la tesi della equiparabilità della c.d. «coltivazione domestica» alla detenzione per uso personale, poiché le due condotte sono «ontologicamente distinte sul piano della stessa materialità» ed è stato affermato che, stante la natura di reato di pericolo del correlato delitto, la coltivazione, intesa in senso ampio, purché idonea alla produzione di sostanze con effetti stupefacenti, si...

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