Art. 126 Bis: in tema di diritto al silenzio la consulta cambia tutto perché (QUASI) nulla cambi. Commento alla sentenza N. 165 e all'ordinanza N. 282 del 2008 della corte costituzionale

AutoreCristiano Bruno
CaricaDottore in giurisprudenza, Responsabile ufficio contenzioso Comando di Polizia locale Treviso
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@1. - Con le due ravvicinate decisioni in rassegna

La Consulta torna ad occuparsi del controverso obbligo di comunicazione previsto dal secondo comma dell'art. 126 bis C.d.S. misconoscendo, in relazione alla questione della compatibilità di tale obbligo con il principio nemo tenetur se detegere, l'indirizzo interpretativo inaugurato con la storica sentenza n. 27 del 2005.

Si ricorderà come, in tale ultima decisione, la Corte avesse fatto salva la costituzionalità dell'obbligo in questione sulla base di una interpretazione sistematica della precitata disciplina legittimante il rilievo che "in nessun caso... il proprietario è tenuto a rivelare i dati personali e della patente del conducente prima della definizione dei procedimenti giurisdizionali o amministrativi per l'annullamento del verbale di contestazione" (v. punto 9.1.2 di motivazione della citata sentenza).

Si evidenzia come la ricostruzione operata nel 2005 dalla Corte implicasse, all'atto pratico, l'individuazione del dies a quo per effettuare la prevista comunicazione alla data di definizione dei ricorsi esperibili.

L'obbligo di comunicazione, cioè, come una specie di spada di Damocle, sarebbe rimasto quiescente fino all'esito della parentetica vicenda contenziosa, chiusa la quale il proprietario-ricorrente, che non fosse riuscito ad ottenere l'annullamento del verbale, non avrebbe più potuto oppone alcun preteso diritto al silenzio.

Sotto molteplici profili, le argomentazioni della Corte costituzionale rimanevano insoddisfacenti.

Non v'è chi non veda, infatti, come, nell'ottica sopra illustrata, la questione del conflitto potenziale tra l'obbligo di comunicazione e il diritto al silenzio non faccia che essere rinviata e slittare al successivo momento nel quale i rimedi attivati per l'annullamento del verbale si siano negativamente esauriti.

Al che, la questione se il principio nemo tenetur se detegere possa valere anche in un procedimento amministrativo sanzionatorio si ripresenta in termini assolutamente immutati.

All'indomani delle critiche mosse alla tesi interpretativa di cui alla sentenza n. 27/05, si deve, oggi, prendere atto che la Consulta appare ripudiare recisamente la citata ricostruzione.

Tanto nell'ordinanza n. 282/2008 che nella sentenza n. 165/2008 non è più possibile, infatti, rinvenire traccia alcuna dei ragionamenti svolti nel celebre precedente del 2005.

@2. - Ma quale soluzione fornisce, allora, oggi la Corte al delicato problema che ci occupa?

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Dopo aver palesemente temporeggiato in più di un'occasione 1, la Corte affronta finalmente la questione con un approccio tuttavia quasi ermetico, caratterizzato dal rinvio piuttosto sommario e sbrigativo a principi giuridici tratti da precedenti giurisprudenziali relativi a casi le cui affinità con il nostro non sono sempre così limpide ed evidenti.

Ad ogni buon conto, l'intricato sillogismo con il quale la Corte perviene a negare l'incostituzionalità dell'art 126 bis poggia sulle seguenti premesse: primo: "il diritto al silenzio si esplica in ogni procedimento secondo le regole proprie di questo (ordinanza n. 33/2002)", secondo: "la previsione dell'obbligo di comunicazione è diretta a provocare - allorché la persona del conducente, autore dell'infrazione stradale, coincida con quella del proprietario del veicolo - una dichiarazione di natura confessoria da parte di un soggetto che risulta legittimato, in ciascuna delle suddette qualità, a proporre opposizione ex art. 204 bis del codice della strada".

Ergo: "la sola esigenza che viene in rilevo nel presente caso è quella già sottolineata dalla Corte nel comparare "la posizione dell'imputato nel processo penale e la situazione della parte e del legittimato all'intervento nel processo civile" e cioè che "una cosa è: nemo testis in causa propria cui s'ispira l'art. 246 c.p.c., e altra cosa è: nemo tenetur edere contra se cui si ispira invece il codice di rito penale (sentenza n. 85 del 1983)".

@3. - Ma che cosa ha esattamente voluto dire la Corte?

Invero, la comparazione tra la posizione della parte nel processo civile e quella dell'imputato nel processo penale, nel citato precedente del 1983, era finalizzata ad evidenziare la diversa finalità sottesa alle limitazioni degli obblighi e delle capacità testimoniali stabiliti...

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