L'art. 14, commi 5 ter e quater, fra Unione europea, diritto penale e procedure di rimpatrio. Breve cronistoria di un contrasto tra incriminazione e diritti fondamentali

AutorePalermo Patrizia
Pagine8-24
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dott
1/2012 Rivista penale
DOTTRINA
L’ART. 14, COMMI 5 TER
E QUATER, FRA UNIONE
EUROPEA, DIRITTO PENALE E
PROCEDURE DI RIMPATRIO.
BREVE CRONISTORIA
DI UN CONTRASTO TRA
INCRIMINAZIONE E DIRITTI
FONDAMENTALI
di Patrizia Palermo
SOMMARIO
1. Premessa. 2. La direttiva 2008/115/CE: ancora sui delicati
rapporti tra diritto dell’Unione e diritto penale. 3. Gli orienta-
menti favorevoli alla diretta applicazione della direttiva. 3.1.
La tesi della disapplicazione del provvedimento amministra-
tivo illegittimo. 3.2. La disapplicazione diretta della norma
penale. 3.3. Abrogazione implicita della norma penale. 3.4.
La tesi della possibile interpretazione orientata al dettato
normativo europeo attraverso l’adempimento a un onere
motivazionale. 4. Gli orientamenti che negavano la diretta
e immediata applicazione della direttiva “rimpatri”. 4.1. Il
contrasto con la norma europea non direttamente applicabile
e il “giustif‌icato motivo”. 4.2. La tesi dell’assenza di contra-
sti. 5. I rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea . 6. La sentenza della Corte di Giustizia e l’estensio-
ne alla fattispecie ex art. 14 c. 5 quater. 7. Il recepimento
della direttiva dell’Unione Europea. La nuova disciplina .
8. Problematiche di diritto intertemporale: la discontinuità
dell’illecito. 9. Quale futuro per il reato ex art. 10 bis T.U.
Immigrazione?. 10. Brevi osservazioni conclusive.
1. Premessa
Il 24 dicembre 2010 era scaduto il termine entro il
quale gli Stati aderenti alla UE dovevano adeguare i ri-
spettivi ordinamenti interni alla direttiva 2008/115/CE
del 16 dicembre 2008 recante norme e procedure comuni
applicabili negli Stati membri al rimpatrio dei cittadini di
paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
La Direttiva mira ad armonizzare le procedure ammini-
strative di rimpatrio degli immigrati irregolari garantendo
il bilanciamento tra le esigenze di garanzia dell’effettività
delle espulsioni (1), e la tutela dei diritti fondamentali dei
cittadini extracomunitari.
Per alcuni giudici scaduto il termine per il recepimento,
a causa delle imponenti e determinanti modif‌iche sistema-
tiche della disciplina in tale materia, si era verif‌icato un
radicale stravolgimento dell’assetto normativo, tale da far
venir meno l’offensività della condotta di inottemperanza
all’ordine del Questore emesso sulla base di una normativa
ormai superata e incompatibile con il diritto comunitario
(2).
Sulla base di questa interpretazione, che ad avviso
di tale orientamento appariva l’unica compatibile con il
diritto comunitario e costituzionalmente orientata, si
riteneva di dover applicare retroattivamente la disciplina
sulle espulsioni di cui alla direttiva 2008/115/CE e, con-
seguentemente, disapplicare anche gli atti amministrativi
emessi prima dell’entrata in vigore della stessa in quanto
incompatibili con la stessa (3).
Alcuni giudici avevano così assolto gli imputati perché
il fatto non sussiste o perché il fatto non è previsto dalla
legge come reato (4) o era stato disposto, già in fase di
indagini preliminari, decreto immediato di liberazione
(5) e richiesta l’archiviazione (6) da parte delle Procure
procedenti (7).
A tale orientamento se ne era contrapposto uno, più
radicale, che non solo escludeva l’immediata applicabilità
interna della direttiva ma non conf‌igurava nemmeno un
possibile contrasto con le fattispecie criminali oggetto di
esame (8).
Alcune tesi che potremmo def‌inire intermedie, pur
smentendo l’immediata applicabilità della Direttiva (9)
individuavano comunque un contrasto con il dettato nor-
mativo interno, da risolvere tramite un intervento legisla-
tivo o un pronunciamento della Corte Costituzionale per
violazione dell’art. 117, comma 1, Cost..
Una ulteriore tesi invece, pur riconoscendo l’immedia-
ta applicabilità della fonte europea, escludeva il conf‌litto
con il dettato penale nazionale suggerendo interpretazioni
orientate ad evitarne il contrasto (10).
Ad avviso degli orientamenti predominanti le previgen-
ti fattispecie criminali ex art. 14, commi 5 ter e quater,
rimanevano in vigore trovando applicazione in tutti i casi
non coperti dalla norma comunitaria o in caso di abroga-
zione della medesima (11). Rimanevano dunque in vigore,
seppur con un ambito applicativo e una possibilità appli-
cativa decisamente esigui.
Si è così ripresentata la questione dei delicati rapporti
tra il diritto dell’Unione e il diritto penale, forse, un tempo,
ultimo baluardo di una sovranità statale, sempre più ridot-
ta e messa in discussione dall’attuale sistema di rapporti
tra ordinamenti e fonti normative.
Come affermato dalla Corte di Giustizia, Hassen El
Dridi, causa C-61/11 PPU del 28 aprile 2011,a conclusione
di questo controverso e intenso dibattito e contenzioso in
materia, il contenuto della Direttiva, in parte immediata-
mente e direttamente applicabile, era palesemente anti-
tetico rispetto alla previgente disciplina ex art. 14, comma
5 ter (e quater) (12) T.U. Immigrazione che era dunque
disapplicabile.
Con il recepimento nell’ordinamento interno della di-
rettiva in questione, (avvenuta con la legge 2 agosto 2011,
n. 129 che ha convertito in legge, con poche modif‌iche,
il Decreto Legge 23 giugno 2011, n. 89, recante “Disposi-
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zioni urgenti per il completamento dell’attuazione della
direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini
comunitari e per il recepimento delle direttiva 2008/115/
CE sul rimpatrio di cittadini di Paesi terzi irregolari”),
la questione sembra aver temporaneamente trovato una
soluzione.
L’art. 14 del T.U. Immigrazione è stato riformato anche
se permangono alcune perplessità di ordine intertempo-
rale in merito ai rapporti tra il regime giuridico di disap-
plicazione dei crimini in questione ante riforma e nuovo
dettato normativo per i fatti commessi prima della novel-
la. Ancora aperta è inoltre la questione della sorte dell’art.
10 bis T.U. Immigrazione (il c.d. reato di clandestinità)
oggetto di appositi rinvii alla Corte di Lussemburgo.
I travagliati rapporti tra diritto interno ed europeo non
sembrano aver trovato un giusto equilibrio come emerge
da questa cronistoria che ancora una volta testimonia la
diff‌icoltà di def‌inizione in ambito penale dei rapporti tra
incriminazione e normativa sovranazionale. È interessan-
te ripercorrere, seppur brevemente, le tappe del dibattito
che ha trovato nella sentenza El Dridi una def‌inizione. La
vicenda che ha coinvolto l’art. 14 merita di essere ripercor-
sa al f‌ine di evitare che, almeno per il futuro, inadempienti
vacanze normative e pericolosi fraintendimenti interpre-
tativi e applicativi si ripresentino.
2. La direttiva 2008/115/CE: ancora sui delicati rappor-
ti tra diritto dell’Unione e diritto penale
Il Parlamento nazionale, nel disegno costituzionale, è
posto al centro dell’organizzazione istituzionale in quanto
diretta espressione della volontà popolare. Attraverso la
sua attività legislativa, soprattutto in materia penale, era
il garante di un’esigenza di democrazia. Questo inquadra-
mento, condivisibile f‌ino a qualche tempo fa, appare ormai
incrinarsi, ed è dunque interessante indagare quanto il
diritto penale sia stato coinvolto in tale innovato rapporto
tra gli ordinamenti e le fonti.
Il primo comma dell’art. 117 Cost. prevede infatti
espressamente che «la potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,
nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali».
Ormai, soprattutto in riferimento alle fonti dell’Unione
europea, è necessario fare riferimento a questa continua
e complessa integrazione tra livelli normativi, soprattutto
in tema di libertà e diritti fondamentali.
Si pensi ad esempio a tutte le questioni, nutrite da
un importante dibattito dottrinale e giurisprudenziale,
acceso anche da forti contrasti tra Corti di merito e Cas-
sazione, relative ai rapporti tra libertà di stabilimento ed
erogazione dei servizi (principi cardine previsti dai tratta-
ti istitutivi) e la disciplina penale della gestione abusiva
delle scommesse e dei concorsi pronostici, che prevedeva
delle contravvenzioni ad hoc.
In tal caso è prevalsa la normativa comunitaria (13)
che tutela una libertà, rispetto alle norme interne che in-
criminavano il gioco e le scommesse abusive, proprio in
virtù di un principio di primazia del diritto dell’Unione ri-
spetto a quello nazionale. In questo caso la giurisprudenza
di merito era giunta a contrapporsi fortemente alle indica-
zioni ermeneutiche fornite dalle Sezioni Unite. Il contrasto
in quel frangente si conf‌igurava tra norme interne e norme
dei Trattati (e cioè con disposizioni di diritto primario del-
l’Unione dotate di effetto diretto) che sanciscono la libera
circolazione dei servizi e la libertà di stabilimento. La Cas-
sazione aveva a lungo sostenuto, proprio con una pronun-
cia a sezioni unite, la compatibilità della disciplina penale
italiana con le norme comunitarie in parola, affermando
che le norme incriminatrici nazionali erano funzionali alla
tutela di un controinteresse (l’ordine pubblico) che, nella
stessa ottica comunitaria, poteva costituire un legittimo
limite alle libertà sancite dal Trattato (14). Tale indirizzo
fu contraddetto da una pronuncia della Corte di giustizia
(15), la quale affermò che la disciplina italiana doveva
considerarsi incompatibile con gli obblighi comunitari. La
Cassazione dovette pertanto riconoscere che quelle norme
incriminatrici, anche se non espressamente abrogate dal
legislatore italiano e formalmente ancora in vigore, non
avrebbero più potuto trovare applicazione da parte dei
giudici italiani (Cass. pen., sez. III, 28 marzo 2007, n.
16928, S.F.), in ragione proprio del loro contrasto con il
diritto comunitario.
Il problema è più complesso quando le norme dell’Unio-
ne non sono dotate di effetto diretto, e non sono come
tali idonee ad essere direttamente utilizzate dal giudice
nella decisione del caso. Mentre i trattati e i regolamenti
spiegano effetti diretti, le direttive sono fonti che vinco-
lano lo Stato membro «per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi
nazionali in merito alla forma e ai mezzi».
La giurisprudenza della Corte di giustizia riconosce
tuttavia la possibilità di un effetto diretto alle direttive
ogniqualvolta:
a) sia scaduto invano il termine di attuazione (senza,
cioè, che lo Stato abbia adempiuto a conformare il proprio
ordinamento agli obblighi discendenti dalla direttiva);
b) la direttiva sia precisa e non condizionata, ossia
la sua applicazione non presupponga necessariamente
l’emanazione di atti da parte delle autorità nazionali;
c) dalla stessa discenda un effetto giuridico favorevole
per l’individuo nei confronti dello Stato inadempiente
(c.d. effetto diretto verticale) (16).
In presenza di tutte le condizioni sopra indicate il
giudice dello Stato membro è tenuto a dare direttamente
applicazione alla direttiva, riconoscendo al singolo i diritti
che gli sarebbero spettati in forza della direttiva, e che lo
Stato ha omesso di riconoscergli entro il termine f‌issato
attraverso le indispensabili modif‌iche della normativa in-
terna, alle quali era obbligato.
L’attribuzione dell’effetto diretto attribuisce al giudice
nazionale il compito di dare attuazione allo scopo della

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