Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia; la redazione del verbale illustrativo ed il rispetto del termine di centottanta giorni nella giurisprudenza della Cassazione

AutoreRaffaele Cantone
Pagine502-509

    Estratto dalla relazione dal titolo “La testimonianza del dichiarante coinvolto nel fatto”, tenuta al l’incontro di studi organizzato dal CSM in Roma, il 30 marzo 2010.

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@1. Premessa

Il “verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione” è specificamente regolato nell’art. 16 quater della l. n. 82 del 1991, norma introdotta dall’art. 14 della legge 13 febbraio 2001, n. 45.

La nuova disposizione nasce per tentare di ridurre al minimo il rischio di inaffidabilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori; vuole evitare, soprattutto, che i pentiti di mafia possano essi stessi scegliere, in relazione a proprie valutazioni di opportunità, il momento in cui raccontare i fatti a propria conoscenza1.

Utilizzando il linguaggio ormai in uso ai media, si vogliono, in pratica, impedire le cd. dichiarazioni a rate.

Le finalità indicate vengono perseguite dal legislatore attraverso l’individuazione di scansioni temporali e cautele formali che devono caratterizzare l’acquisizione delle dichiarazioni del propalante, e attraverso la previsione di conseguenze sanzionatorie per le inosservanze delle forme e dei tempi, tali da incidere sia sui benefici di cui potrebbe godere il propalante che sul valore processuale delle dichiarazioni.

Senonchè la tecnica legislativa utilizzata nella scrittura norma - per essere buoni qualificabile come non particolarmente accurata - ha ingenerato numerosi problemi ermeneutici che hanno reso indispensabile, almeno su di uno specifico aspetto, anche un intervento dirimente delle sezioni Unite.

@2. L’analogo istituto introdotto nel 1984

L’istituto introdotto dalla legge n. 45/01 ha un suo antenato diretto in altro analogo previsto nell’art. 2 del decreto interministeriale dei Ministri dell’Interno e della Giustizia del 24 novembre 1994 n. 687. In quel caso era denominato “verbale delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione”, se reso da un collaboratore di giustizia o “verbale di informazione ai fini delle indagini” se proveniente da soggetto estraneo alla criminalità organizzata, e quindi, dal cd. “testimone di giustizia”.

In esso, da rendersi con le forme e le modalità previste dal codice di rito penale per gli atti del P.M., dovevano essere contenute le informazioni a conoscenza del propalante ed esposti gli elementi utili alla ricostruzione dei fatti di maggiore gravità ed allarme sociale di cui il predetto era a conoscenza, oltre a quelli utili per l’individuazione e la cattura dei loro autori.

Il verbale avrebbe dovuto essere allegato alla proposta di ammissione al programma di protezione e finire, quindi, agli atti della Commissione ministeriale, prevista dall’art. 10 della legge n. 82/91.

Fin dalla sua emanazione il decreto fu oggetto di critiche molto serrate da parte soprattutto degli Uffici inquirenti e tali critiche si trasfusero, in gran parte, in un conflitto di attribuzione sollevato dalla Procura della Repubblica di Napoli.

La Corte Costituzionale chiamata a dirimerlo, con una sentenza del 1995 molto lunga e particolarmente argomentata2, dichiarò, di fatto, l’illegittimità delle parti più significative del decreto interministeriale, testualmente stabilendo che non spettasse al Governo, e per esso al Ministro dell’interno, adottare disposizioni con cui si prevede che il Procuratore della Repubblica debba redigere il verbale in questione, anche qualora ritenga, in base ad una propria motivata valutazione, che ciò possa recare pregiudizio per lo sviluppo delle indagini.

A sostegno della conclusione, la Corte rilevò che l’imposizione al P.M., quale condizione per l’ammissione del collaboratore al programma speciale di protezione, di redigere gli atti più volte citati, viene ad incidere direttamente sull’attività di conduzione delle indagini, la cui strategia, ai fini del più proficuo sviluppo delle indagini medesime in relazione ai singoli procedimenti, va lasciata - nei limiti stabiliti dall’ordinamento - alla libera valutazione del Procuratore della Repubblica.

Ai fini, quindi, del ripristino dell’integrità delle attribuzioni costituzionali del P.M. la Corte aggiungeva che la redazione del verbale dovesse essere rimessa alla discrezionalità del P.M., con la conseguenza che il mancato compimento di tale atto non avrebbe potuto di per sé costituire ostacolo all’ammissione al programma di protezione.

La trasformazione dell’obbligo in facoltà, a seguito dell’intervento della Corte, comportò la sostanziale desuetudine dell’istituto in quanto gli uffici inquirenti in mag-Page 503gioranza optarono per non redigere il verbale in questione, che si trasformò, quindi, in uno strumento desueto.

@3. L’art. 16 quater della l. n. 82/91; il dies a quo per il computo del termine dei 180 giorni

L’istituto riproposto nel 2001 in via legislativa è alquanto diverso dal precedente; ad esso viene dedicata una disposizione ad hoc della legge dedicata ai collaboratori di giustizia che avrebbe l’ambizione di regolamentarlo in modo tendenzialmente completo, in relazione ai suoi diversi aspetti

L’incipit della disposizione indica con chiarezza le ragioni e finalità per le quali il verbale deve essere redatto; è indispensabile perché al collaboratore possano essere concesse le speciali misure di protezione ed i benefici sia di natura sanzionatoria che penitenziari.

Nello stesso primo comma viene individuato il tempo entro il quale deve essere stilato: 180 giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare.

Siccome il mancato rispetto del termine è sanzionato, anche dal punto di vista processuale, diventa particolarmente importante individuare il dies a quo. Secondo la dottrina, il termine comincia a decorrere dal momento in cui il collaboratore dichiari, in un atto processuale utilizzabile, la sua volontà di iniziare il percorso collaborativo3; non è, però, necessaria una formale dichiarazione, potendo la volontà essere manifestata anche con facta concludentia, purchè essa emerga in modo inequivoco, non risultando sufficiente, ad esempio, una semplice ammissione di responsabilità, magari accompagnata ad un vago riferimento all’esistenza ed all’operatività di una organizzazione delinquenziale4.

La giurisprudenza di legittimità, invece, non sembra ancora essersi espressa sull’argomento in modo chiaro5; nell’unica sentenza edita, la Cassazione ha collegato, infatti, il dies a quo alla redazione del verbale illustrativo, rischiando di confondere le idee, sia perché il verbale in questione è strutturalmente un adempimento necessario per formalizzare la già manifestata volontà di collaborare sia perché il verbale può essere redatto anche in un momento successivo all’inizio della collaborazione, purchè entro 180 dalla manifestazione di volontà.

@4. Il contenuto del verbale illustrativo

Per quanto riguarda il contenuto del verbale, l’art. 16 quater in esame dissemina in più commi l’indicazione di quali dati debbano necessariamente essere inseriti nell’atto.

L’indicazione principale è certamente quella contenuta nel comma 1, dove si stabilisce che il collaboratore deve riferire al procuratore della Repubblica tutte le notizie in suo possesso, che siano utili alla ricostruzione dei fatti su cui è interrogato e tutti gli altri fatti di maggiore gravità ed allarme sociale di cui è a conoscenza. Deve, inoltre, fornire notizie utili per la individuazione e la cattura degli autori dei reati di cui ha parlato e le informazioni necessarie perché possa procedersi alla individuazione, al sequestro e alla confisca dei beni dei quali dispone egli stesso o dispongono, direttamente o indirettamente, altri appartenenti ai gruppi criminali.

Della completezza delle informazioni il propalante deve anche dare una sorta di attestazione; secondo quanto previsto dal comma 4, deve, infatti, dichiarare - evidentemente, pur nel silenzio della norma, al momento in cui viene chiuso il verbale illustrativo - di non essere in possesso di notizie ed informazioni processualmente utilizzabili su altri fatti o situazioni, anche non connessi o collegati a quelli riferiti, di particolare gravità o comunque tali da evidenziare la pericolosità sociale di singoli soggetti o di gruppi criminali.

La ratio della disposizione andrebbe individuata nell’esigenza di richiamare l’attenzione del propalante, così responsabilizzandolo, sull’importanza dell’atto posto in essere;

Nel verbale illustrativo il “pentito” deve anche indicare - così come espressamente imposto dal comma 5 - i colloqui investigativi eventualmente intrattenuti e ciò per comprendere quale sia la genesi della scelta collaborativa e se possano essere intervenuti fattori inquinanti della genuinità delle dichiarazioni.

Con il comma 6 - la cui utilità è difficilmente comprensibile visto che la prescrizione contenuta sembra essere nient’altro che una pedante precisazione6 - si stabilisce, infine, che le notizie e le informazioni da riferirsi sono quelle processualmente utilizzabili che, a norma dell’art. 194 c.p.p., possono formare oggetto di testimonianza; da esse sono escluse le informazioni assunte da voci correnti o da situazioni ad esse assimilabili, concetto quest’ultimo di difficile comprensione, visto che non appare collegabile ad alcuna tipologia codicistica e che potrebbe essere letto come riferito a tutte quelle conoscenze riconducibili a fonti non precise e, quindi, incontrollate ed incontrollabili, ovvero prive di specificità e di determinatezza7.

Il problema ermeneutico connesso alla disposizione è quello di comprendere quali “fatti” debbano essere riferiti dal collaboratore; si tratta di una questione tutt’altro che teorica, atteso che l’omissione comporta conseguenze pregiudizievoli per il propalante (comma 7) e per il processo (comma 9).

Dalla lettura congiunta, soprattutto dei commi 1 e 4, la dottrina è giunta a ritenere che nel verbale illustrativo il collaboratore debba dire tutto quanto a sua conoscenza e ciò indipendentemente dalle domande formulategli dal P.M., con un limite che si può ricavare dal riferimento testuale ai “fatti...

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