La Cessazione e la rinnovazione dei contratti di locazione regolati dalla legge n. 431/1998

AutoreNino Scripelliti
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@1. La disdetta e la rinnovazione nella disciplina del codice civile

Si intende con questa nota proporre una possibile ricostruzione della disciplina della legge n. 431/1998 sulla cessazione e rinnovazione dei contratti di locazione degli immobili abitativi (o meglio del rapporto locativo), fino ad oggi oggetto di scarso e non attuale interesse 1 in quanto la durata legale dei nuovi tipi di contratto ha spostato in avanti nel tempo l'emersione di possibili punti critici della disciplina (la seconda scadenza dei contratti caratterizzati dal doppio quadriennio previsti dal comma 1 dell'art. 2 della legge n. 431/1998, avrà luogo a partire dal 2007, e la seconda scadenza dei contratti previsti dal comma 3 - i cui presupposti attuativi e segnatamente il decreto ministeriale che ha approvato i contratti-tipo e gli accordi territoriali si sono perfezionati alla fine del 1999 ed oltre - inizierà non prima della fine del 2005).

È quindi opportuno in primo luogo, inquadrare la disciplina della cessazione e della rinnovazione dei tipi di contratto istituiti dall'art. 2 della legge di riforma delle locazioni abitative (per brevità e per intendersi, indicati nel seguito di questa nota come contratti liberi o contratti agevolati, rispettivamente regolati dai comma 1 e 3 dell'art. 2) e la prassi contrattuale che ha sempre previsto la scadenza del rapporto locativo ed evitato la previsione di un rapporto a tempo indeterminato, nella fonte primaria della cessazione e della rinnovazione e quindi negli artt. 1596 e 1597 del codice civile. Il quadro che ne risulta non brilla per razionalità e chiarezza dei presupposti e sotto l'aspetto funzionale, dei procedimenti e degli effetti, a partire proprio dai termini usati come quello di disdetta che la legge non definisce e che tradizionalmente è atto recettizio qualificabile come manifestazione di volontà diretta a determinare la cessazione dei contratti di durata; e come il termine rinnovazione, egualmente di fonte legale (art. 1597 c.c.), e che viene percepito, indifferentemente, come formazione di nuovo contratto dello stesso contenuto del precedente, o come proroga e differimento della scadenza del precedente contratto 2. In effetti la disciplina codicistica muove da una tipologia di locazioni immobiliari divenuta del tutto anacronistica quanto alla durata e nemmeno corrispondente alla costante prassi contrattuale, e rispetto alla quale non è agevole la sistemazione delle varie ipotesi correnti di cessazione e di rinnovazione. Dovendosi classificare la locazione tra i contratti di durata, la disciplina codicistica muove infatti dalla distinzione tra locazioni con determinazione della durata e con previsione della scadenza (ma con il limite di trenta anni; cfr. l'art. 1573 c.c.), e locazioni nelle quali le parti non hanno determinato la durata, con attivazione, in tal caso, dell'effetto integrativosuppletivo dell'art. 1574 che inserisce autoritativamente ed automaticamente (quindi senza necessità di pronuncia costitutiva) nei contratti di locazione di immobili non ammobiliati, abitativi o non abitativi, il termine di un anno salvi gli usi locali (ovvero per le case ammobiliate, il termine corrispondente alla unità di tempo alla quale è commisurato il canone). Si tratta di integrazione automatica legislativa non ai sensi dell'art. 1419 c.c. e quindi non di espunzione-sostituzione ex lege di clausola nulla nell'interesse della conservazione del contratto, salva l'ipotesi abbastanza scolastica, non di mera omissione della previsione della scadenza ma di espressa previsione di durata contrattuale a tempo indeterminato, come non era consentito nemmeno dall'art. 1 della legge n. 392/1978 per le locazioni abitative e come non consente tuttora per le locazioni non abitative l'art. 27 comma 4 della stessa legge, e che nel caso di omessa previsione della durata, prevedono l'inserimento automatico di quella legale minima. Per contro l'art. 1574 c.c. inserendo nel contratto a tempo indeterminato la scadenza annuale, per quanto possa ora rilevare ed interessare la ricostruzione di quei principi, supplisce alla insufficiente volontà delle parti che non hanno attribuito all'oggetto del contratto (il godimento dell'immobile da parte del conduttore ed il corrispettivo da questi dovuto) la determinazione richiesta a pena di nullità dagli artt. 1346 e 1418, comma 2, del codice civile.

Si può quindi dire che la disciplina codicistica prevede un termine per tutti i rapporti di locazione, ma che agli effetti della cessazione o rinnovazione, occorre distinguere, quanto ai presupposti, l'ipotesi di pattuizione originaria del termine, dall'ipotesi di inserimento del termine nel contratto per effetto dell'integrazione disposta dall'art. 1574. Nel primo caso infatti, il rapporto di locazione viene a cessare ipso jure alla scadenza e senza che sia necessaria la disdetta come espressamente si esprime il testo legislativo; nel secondo caso invece, il rapporto contrattuale viene a cessare se almeno una delle parti comunica all'altra disdetta nel termine fissato [in primo luogo originariamente dalle norme corporative, espressione tuttavia abrogata o meglio inapplicabile in conseguenza della cessazione dell'ordinamento corporativo] dalle parti o dagli usi (art. 1596 c.c. comma 3). Ed essendo difficile ipotizzare che le parti le quali non hanno pattuito la scadenza del contratto, possano avere previsto un termine per la disdetta, l'unico termine alla comunicazione della disdetta, concretamente possibile in caso di contratto a tempo indeterminato, sarà quello previsto dagli usi contrattuali (ammesso che dopo cinquanta anni di legificazione intensiva nella materia, qualche uso contrattuale possa essere sopravvissuto e risulti ancora debitamente censito nelle raccolte delle Camere di Commercio).

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L'art. 1597 c.c. disciplina la rinnovazione contrattuale espressamente definita tacita in quanto non espressa in forma scritta (come ora l'art. 1 comma 4 legge n. 431/1998 espressamente prevede) o verbale, nel caso di contratto con previsione di scadenza, attribuendo presuntivamente («La locazione si ha per rinnovata...») significato di volontà di rinnovazione al comportamento delle due parti omissivo di disdetta, successivo alla cessazione del rapporto locativo ed in specie al fatto che il conduttore sia rimasto e sia stato lasciato - dal locatore - nella detenzione della cosa locata 3. In tal caso il significato di volontà di rinnovazione, è dalla legge attribuita al non esercizio da parte del locatore del diritto al rilascio dell'immobile, considerato come rinuncia e quindi di fatto estintivo di tale diritto, in concomitanza con il corrispondente comportamento del conduttore che non abbia provveduto al (ovvero non abbia offerto il) rilascio 4. Per contro, quando la scadenza del rapporto non sia stata prevista dal contratto e sia l'effetto della integrazione disposta dall'art. 1574 c.c., la rinnovazione è l'effetto della omissione di disdetta (art. 1596 c.c. comma 3) da entrambe le parti, nel termine previsto dagli usi 5 (per quanto sopra detto in proposito): il che corrisponde alla prassi contrattuale più diffusa tra i contratti di durata, in genere. A ben vedere, si tratta di qualificazione legale o convenzionale del silenzio delle parti del contratto, al quale si attribuisce il valore di volontà concomitante delle parti nel senso della protrazione del vincolo contrattuale.

In tale quadro normativo di riferimento, la disciplina codicistica della cessazione e della rinnovazione dei contratti di locazione di immobili è compatibile con la qualificazione della rinnovazione come una «nuova locazione (è) regolata dalle stesse condizioni della precedente» (art. 1597, comma 2, c.c.), ma con durata corrispondente a quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato. Dunque l'ipotesi ricostruttiva più verosimile della disciplina codicistica della vicenda contrattuale ora descritta in astratto, muove dalla presunzione juris e de jure, che la coincidenza dei comportamenti...

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