Cenni sul concetto di malattia mentale

AutoreGiuseppe D'Acquì
Pagine253-255

Page 253

Sul concetto di malattia mentale in giurisprudenza vi sono diverse interpretazioni che talvolta non sfociano in certezze lasciando, inevitabilmente, qualche dubbio.

Il giudice di merito (oltre che quello di legittimità) ha incontrato nel tempo difficoltà in tema di capacità di intendere e di volere che «costituisce uno dei problemi, per così dire, peggiori per il giudice del processo penale costretto a muoversi quasi a tentoni fra approcci empirici di interpretazione e soprattutto dissonanze e distanze ormai evidenti fra i risultati cui è pervenuta la ricerca scientifica e il dettato normativo risalente ormai a quasi tre quarti di secolo orsono. Infatti, a parte casi evidenti di follia manifesta l'esperienza giudiziaria è popolata da chiaroscuri quali possibili simulazioni, reazioni abnormi a corto circuito, stati morbosi difficilmente inquadrabili e zone grigie largamente diffuse nella collettività, tra la patologia e la piena normalità» 1 2.

La psichiatria, che è una scienza, ci offre vari orientamenti su cosa deve intendersi per malattia mentale nonché variegate interpretazioni che tendono a configurare la malattia mentale anche oltre i modelli classici da tempo conosciuti.

C'è chi valorizza il dato medico (psichiatria c.d. biologica) e c'è chi, invece, valorizza i c.d. disturbi della personalità.

Ma già da tempo si va affermando in diritto il principio secondo cui non si deve più intendere la malattia mentale legata a fattori meramente biologici ma anche psicologici, ambientali, sociali, ecc.

Quindi, si può essere non imputabili in quanto "malati" mentalmente, e lo si può essere altrettanto in quanto "disturbati" mentalmente.

Ogni qualvolta, cioè, a causa di elementi idonei di natura organica e/o non, la capacità di intendere e di volere viene esclusa o grandemente scemata, ci si troverà in presenza del vizio totale o parziale di mente (ex artt. 88-89 c.p.).

L'idea generale del delitto è quella di una violazione (o abbandono) della legge: perché nessun atto dell'uomo può essergli rimproverato, se una legge non lo vietava. Un atto diviene delitto solo quando cozza con la legge; può un atto essere dannoso; può essere malvagio e dannoso; ma se la legge non lo vieta, non può essere rimproverato come delitto a chi lo eseguisce. Ma varie essendo le leggi direttive dell'uomo, in questa idea generale il vizio (che è l'abbandono della legge morale) e il peccato (che è la violazione della legge divina) si confonderebbero col delitto

.

Così si esprimeva FRANCESCO CARRARA nella sua opera "Programma del corso di diritto criminale". E secondo l'illustre studioso della scienza penale «soggetto attivo primario del delitto non può essere che l'uomo perché al delitto è essenziale la genesi del fatto da una volontà intelligente, la quale non è che nell'uomo. Ed ogni uomo in punto astratto di ragione può essere soggetto attivo di delitto; quantunque la sua posizione possa essere di ostacolo alla persecuzione» 3.

E in quest'ultima precisazione del CARRARA, relativa alla posizione del soggetto attivo del delitto, il riferimento è a quei soggetti che per il loro ruolo istituzionale (p. es.: il principe, l'ambasciatore) si sottraggono alla persecuzione penale. Ciò sarebbe giustificato dal fatto di «un riguardo al compatto sociale che si sciorrebbe, ed all'anarchia e disordine in cui tutta la consociazione verrebbe gettata' per una tale procedura», così anche «gli ambasciatori che non andrebbero giudicati criminalmente con i modi ordinari per un rispetto alle relazioni internazionali ed alla loro rappresentanza» 4.

Ma al di là di queste considerazioni ormai datate (ma pur sempre valide sotto certi aspetti) gli esempi servono per introdurre l'argomento della non punibilità di un soggetto "malato mentalmente" o "disturbato" che comunque ha commesso un delitto.

Spetta, quindi, al giudice stabilire se il soggetto che ha compiuto l'azione delittuosa era nel pieno della coscienza e della volontarietà dell'azione.

E per quanto investito del crisma della somma conoscenza (peritus peritorum) l'ultima parola, il giudice, la potrà dire solo se attraverso l'ausilio degli esperti se ne sarà fatta "un'idea". Un libero convincimento delimitato da due o più altri convincimenti scientifici spesso non agganciati, però, al terreno della certezza. Più la tecnica è innovativa e più il giudice deve essere guidato nello sfruttamento della "nuova scienza".

Questo è un insegnamento che recepiamo dall'evoluzione giurisprudenziale americana e che in Europa continentale non è ancora pienamente accolto e ciò perché le antiche tradizioni europee vedono ancora il giudice come peritus peritorum e dunque «esperto più degli esperti», tutto ciò con gravi rischi per la correttezza della decisione 5.

Il giudice dovrà verificare la persona, radiografarla nel suo passato, nel suo presente, nel suo futuro, poiché non basta comprendere cosa è accaduto nell'atto del comportamento del misfatto ma dovrà sapere se nel prossimo futuro si asterrà dal perseverare.

Ma in tal senso occorre, uno sforzo sinergico, un incontro al crocevia...

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