L'art. 41 Bis ord. Pen. (C.D. Carcere duro): garante della salute pubblica o usurpatore di garanzie costituzionali?

AutoreNino Granata
Pagine627-630

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Il «sistema penitenziario» rappresenta, da sempre, un indice del grado di civiltà di un Paese democratico.

Il «problema» penitenziario, storicamente, si pone per la prima volta a livello mondiale, come questione strettamente inscindibile dal rispetto dei Diritti dell'Uomo consacrati nella Dichiarazione Universale del 1948.

Sino ad allora il carcere era stato usato, unitamente agli altri strumenti di repressione penale, in chiave di difesa dello Stato e per perseguitare gli avversari politici.

Da quel momento in poi il termine «penitenziario» coinciderà sempre meno con il termine «carcerario», significando non soltanto le strutture organizzative che si occupano della gestione della pena, ma anche quelle predisposte per permettere e favorire migliori condizioni di vita per la popolazione carceraria e maggiori contatti con l'esterno anche per il settore strettamente carcerario.

Nell'interno del versante penitenziario, la semplificazione delle varie qualità di pena-privazione della libertà di tipo ottocentesco (galere, bagni penali, case di forza, varie forme di ergastoli e reclusione, deportazione) a una sola o due (come nel caso italiano arresto e reclusione), aveva già dagli anni trenta permesso una migliore omogeneità dei regimi concreti e delle linee di fondo delle politiche penitenziarie.

Dopo la seconda guerra mondiale, i sistemi penitenziari si dirigono non più verso la punizione del reo, né verso «l'emenda» in senso religioso o etico, quanto verso l'obiettivo del reinserimento sociale. Negli ordinamenti di riforma penitenziaria che si succedono negli anni '60 e '70 si parla di veri e propri «diritti» dei detenuti, primo dei quali al trattamento rieducativo [che in Italia riceveva anche una consacrazione giurisprudenziale (Cass. pen., sez. I 1 luglio 1975, Varrone in Rass. penit. e crim. 1981, 524)] 1.

Con la L. 10 ottobre 1986, n. 663, il Parlamento ha varato la prima organica modifica dell'Ordinamento penitenziario istituito con la L. 26 luglio 1975, n. 354 intitolata «Norma sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure limitative della libertà».

In questo contesto internazionale, in cui si va delineando una ulteriore nozione di trattamento - intesa come offerta di opportunità tesa ad attenuare la sofferenza causata dalla privazione della libertà ed a cogliere ogni migliore possibilità di reinserimento sociale - si viene ad inserire la riforma penitenziaria del 1986.

Tenendo conto dell'esperienza maturata nel decennio trascorso dall'approvazione di quella, che ancora oggi, costituisce la riforma più radicale del sistema penitenziario Italiano (L. n. 354/1975) il Legislatore degli anni '80, ha rivisitato organicamente la disciplina, in parte aggiornandola, in parte razionalizzandola, in funzione di una sempre maggiore aderenza della normativa alle esigenze emerse in corso di applicazione.

Infatti, la legge n. 354/1975 sperimentava per la prima volta in Italia istituti già noti in altri Paesi come l'affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà e la libertà anticipata. La loro introduzione nel nostro ordinamento rispondeva all'esigenza di individuare legislativamente dei nuovi strumenti, anche nell'ambito dell'esecuzione della pena, che attuassero, secondo le direttive del Consiglio d'Europa (art. 64 delle «regole minime per il trattamento dei detenuti» redatto nel 1973) un sistema differenziato di sanzioni al fine di una più efficace politica di difesa sociale.

Con la riforma del 1986 sono peraltro rimaste formalmente immutate le linee fondamentali che allora vennero tracciate, ed anzi si sono fatti dei passi in avanti nell'attuazione di quei principi che con la legge 1975 si intesero affermare 2 nel senso che l'esecuzione penitenziaria non debba avere carattere afflittivo ed emarginante, ma debba invece tendere a favorire il graduale processo di reinserimento del detenuto nella società attraverso la previsione di meccanismi che ne incentivino la partecipazione e la collaborazione attiva all'opera di trattamento, rafforzata attraverso la previsione di specifici strumenti tendenti a svolgere tale funzione fin dal momento iniziale dell'esecuzione, in conformità al concetto di «rieducazione» sancito dall'art. 27, terzo comma, Cost. It. e trasfuso nella legge penitenziaria del 1975 3.

Occorre evidenziare, tuttavia, che se, da un lato, gli scopi fondamentali erano quelli di: configurare l'esecuzione della pena carceraria come estrema ratio; estendere l'ambito di operatività delle sanzioni sostitutive al regime detentivo operanti anche ab initio; allargare la sfera di applicazione della semilibertà; pervenire ad una più completa e razionale giurisdizionalizzazione della fase esecutiva, i motivi che hanno sollecitato la riforma, sin dal momento iniziale del suo iter legislativo, sono legate ad esigenze di natura contingente ed urgente che la legge penitenziaria all'epoca in vigore, stante gli «strumenti di cui disponeva» non era in grado di fare fronte, né di offrire soluzioni appaganti, quindi occorrevano scelte alternative immediate.

Pressante era, infatti, l'esigenza e l'urgenza di superare una situazione, alquanto difficile, che, all'epoca, si era venuta a creare all'interno delle carceri in concomitanza con l'esplosione di un nuovo tipo di criminalità a carattere organizzato, di matrice terroristica o mafioso-camorristico. Basti pensare a tutta la legislazione dell'emergenza in quel frangente...

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