Mercenariato e contractors: brevi note a margine di una interessante sentenza di merito

AutoreVito Pappalepore
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Nella parte motiva della sentenza in commento, la Corte di Assise di Bari ha qualificato la fattispecie giuridica di cui all’art. 288 c.p., coordinandola con i nuovi scenari politici e militari internazionali e le Convenzioni ad esso afferenti.

Si è partiti dalla ratio legis dell’istituto, che è quella di tutelare il potere di coscrizione militare da parte dello Stato e l’ulteriore prerogativa del potere di organizzare missioni militari all’estero (come sottolineato dal Maggiore, in Principi di diritto penale, vol. II, Bologna 1938).

Si è proceduto in un percorso logico in cui la Corte ha ricondotto l’ambito operativo dell’art 288 c.p. in quello moderno delle missioni di Peace Keeping, nelle quali operano le nostre Forze Armate. Per la verità, a dirla con le stesse parole della Corte, tale elemento applicativo va disgiunto da quello oggettivo che si sostanzia nella condotta di arruolare soggetti all’interno del territorio nazionale.

La collocazione codicistica della norma nel titolo I, capo II, riservato ai delitti contro la personalità interna dello Stato, aveva fatto avallare, da parte della Difesa, la tesi che l’art. 288 c.p. perseguisse una condotta eversiva

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dei poteri dello Stato, pilotata da attori esterni allo stesso. La Corte, pur ribadendo che il perfezionamento del delitto sia tutto interno allo Stato, ha incardinato principalmente le proprie motivazioni sul rapporto tra l’art. 288 e la Convenzione di New York, recepita con legge n. 210/95.

La Convenzione in oggetto era stata adottata dalle Nazioni Unite per fronteggiare il fenomeno del “mercenarismo”.

All’art. 3 della predetta legge si definisce la figura del mercenario come “colui che, dietro corrispettivo economico o altra utilità (…) combatte in un conflitto armato nel territorio comunque controllato da uno stato estero o partecipa ad un’azione preordinata e violenta diretta a mutare l’ordine costituzionale o a violare l’integrità territoriale di uno stato estero”.

L’art. 4 circoscrive la condotta delittuosa: “Chiunque recluta, utilizza, finanzia o istruisce delle persone al fine di far loro commettere alcuni dei fatti previsti nell’art. 3 (…)”.

L’art. 7, armonizzando la norma internazionale con l’ordinamento interno, innalza la pena edittale della fattispecie di cui all’art. 288.

La ratio di questo intervento normativo va rintracciata in due differenti motivi, complementari tra di loro. Il primo è quello della tutela dello Stato italiano da minacce indirette, quali possono essere le operazioni mercenarie organizzate nei teatri di guerra dove opera il nostro esercito.

Il secondo è quello di aver dato così preminenza alla legge italiana sulla fonte internazionale, ponendosi in relazione di specialità con la medesima.

Le motivazioni della Corte di Assise di Bari, trovano il loro canone ermeneutico nell’endiade precedentemente enunciata.

Prova ne sia che nelle motivazioni si apprende: “È questo al giorno d’oggi lo scopo precipuo che si prefigge la disposizione dell’art. 288 c.p. e che ne ha rinnovato l’attualità, tanto da renderla organica al quadro normativo formatosi di recente per contrastare il fenomeno del mercenarismo”; “Non sembrano residuare margini per includere le condotte degli imputati (…) nell’ambito di operatività dell’art. 288 c.p., che deve attualmente interpretarsi alla luce dell’intero sistema normativo volto a reprimere il fenomeno del mercenarismo”.

Nella sentenza si è proseguito con un’analisi comparativa, sovrapponendo in controluce la condotta degli imputati con la lettera dell’art. 288 c.p.

Questa seconda parte appare distonica con le premesse di carattere giusinternazionale.

Il riferimento prodromico alla norma internazionale ha infatti cristallizzato l’interpretazione della norma nell’alveo di una condotta mercenaristica, volta all’adesione ad un conflitto armato, sul territorio controllato da un altro Stato.

Infatti, il rapporto tra l’art. 288 c.p. e l’art. 4 della legge 210/95 avrebbe dovuto essere di carattere combinatorio, in quanto le due norme sono in un reciproco rapporto di specialità.

Appare invece forzoso aver adottato l’una come canone interpretativo dell’altra.

Si è così esclusa l’eventualità, per esempio, che l’arruolamento a favore dello straniero ex art. 288 c.p. possa essere fatta per meri motivi ideologici e non mercenaristici.

Nel tentativo di sintetizzare l’elemento oggettivo, con l’ambito applicativo internazionale, si è arrivati a poggiare la decisione su una terza ipotesi di condotta delittuosa: il “(…) contributo causale al raggiungimento degli obiettivi militari della missione internazionale”, che non profila una condotta mercenaristica, così come codificato nelle Convenzioni internazionali, né sostanzia un arruolamento a favore dello straniero, posto che la causa militare della forza coadiuvata è comune all’intera coalizione.

Una importante questione interpretativa, che avrebbe meritato maggiore attenzione, è quella delle relazioni internazionali tra i Paesi aderenti alle missioni di pace e dei profili giuridici inerenti l’amministrazione di territori pacificati.

L’Iraq era amministrato dal C.P.A. (Coalition Provisionally Authority), in seno al quale vi era la rappresentanza italiana, affianco a quella degli altri paesi.

Gli stessi Paesi, tra i quali l’Italia, sottoscrissero un documento, definito “Ordinanza numero 17”, con il quale, in coerenza e in conformità alle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, incluse le Risoluzioni 1483 del 2003, 1511 del 2003 e 1546 del 2004, intesero regolamentare l’apporto dei così detti “contractor”, per inquadrarne il profilo giuridico e la competenza giurisdizionale di riferimento.

Da ciò muove la perplessità che l’art. 288 c.p. possa davvero trovare applicazione nel contesto citato, occorso che non sussista alcun aspetto di alterità nella figura dello ‘straniero’ così profilatasi.

Vi è di più, elemento costitutivo della fattispecie è l’approvazione del Governo, in quanto esso è l’effettivo dominus delle missioni militari internazionali.

Come si apprende dal Caringella, l’approvazione è un provvedimento permissivo che rende eseguibili atti giuridici già perfetti. Differisce dall’autorizzazione in quanto postuma all’atto e propedeutica alla sua operatività; il Galli aggiunge che essa costituisca generalmente un atto di controllo.

Quindi potrebbe ipotizzarsi che, qualora vi sia un direttivo comune alla Coalizione militare e a fortori un’Autorità provvisoria (C.P.A.) che soprassieda alle operazioni in loco, ciò possa considerarsi ratificante di un precedente arruolamento in patria.

Appare fatale una omogeneizzazione del nostro Diritto penale con gli ordinamenti giuridici degli altri paesi occi-

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dentali, attraverso il recepimento delle Convenzioni internazionali, al fine di armonizzare le relazioni tra Stati.

Nel caso de quo è venuta a mancare una codificazione interna della figura privatistica dei “contractor”, già presente nel mondo giuridico anglosassone, al tal punto che, recependo la tesi accusatoria, si è avvalorata l’ipotesi che anche le attività di carattere civile, se concorrenti al perseguimento di un fine militare, rientrerebbero nella ipotesi delittuosa di cui all’art. 288 c.p..

TRIBUNALE PENALE DI TORINO SEZ. SORV., ORD. 23 FEBBRAIO 2011

Pres. Vignera – est. Vignera – ric. B.m.

Istituti di prevenzione e pena (ordinamento penitenziario) y Misure alternative alla detenzione in genere y Divieto di concessione y Condannato in espiazione di pena detentiva a seguito di conversione y Ambito di operatività y Estensione del divieto alle misure non aventi finalità umanitaria o terapeutica y Ammissibilità.

Istituti di prevenzione e pena (ordinamento penitenziario) y Misure alternative alla detenzione in genere y Concessione o diniego y Istanza dell’interessato y Proponibilità nel procedimento di conversione ex art. 66, l. 689/1981 y Successiva sospensione dell’esecuzione y Esclusione.

Il divieto di misure alternative alla detenzione previsto dall’art. 67, legge 24 novembre 1981 n. 689 nei confronti del condannato in espiazione di pena detentiva per conversione effettuata ai sensi dell’art. 66, primo comma, stessa legge non va limitato a quelle (espressamente previste) dell’affidamento in prova al servizio sociale e della semilibertà, ma va esteso ad ogni altra misura alternativa non avente finalità umanitaria o terapeutica e, in particolare, alla detenzione domiciliare c.d. generica. (l. 24 novembre 1981, n. 689, art. 66; l. 24 novembre 1981, n. 689, art. 67) (1)

Anche in applicazione del principio di economia processuale e/o di quello della ragionevole durata del processo, le misure alternative alla detenzione non vietate dall’art. 67 legge 24 novembre 1981 n. 689 vanno richieste dall’interessato in stato di libertà nell’ambito dello stesso procedimento (innanzi al tribunale di sorveglianza) instaurato per la conversione ex art. 66 stessa legge; di guisa che, esauritosi quel procedimento senza l’applicazione di una misura alternativa, non è consentito al pubblico ministero sospendere l’esecuzione ai sensi dell’art. 656, quinto comma, c.p.p.. (l. 24 novembre 1981, n. 689, art. 66; l. 24 novembre 1981, n. 689, art. 67; l. 24 novembre 1981, n. 689, art. 108; c.p.p., art. 656) (2)

(1) Di diverso avviso Cass. pen., sez. I, 15 febbraio 2001, Azzolina, in questa Rivista 2001, 771, la quale, in considerazione del carattere eccezionale e, quindi, di stretta interpretazione, dell’art. 67 della legge n. 689 del 1981, ha affermato che il divieto di affidamento in prova al servizio sociale e di ammissione alla semilibertà per il condannato in espiazione di pena detentiva derivante da conversione effettuata a norma dell’art. 66, comma 1, della stessa legge non può essere esteso anche alla detenzione domiciliare prevista dall’art. 47 ter, comma 1 bis, dell’ordinamento penitenziario.

(2) Per Cass. pen., sez. I, 4 dicembre 1999, P.M. in proc. Azzolina, in questa Rivista 2000, 508, la disposizione di cui al...

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