La disciplina del bilanciamento di circostanze tra prassi applicativa e politica criminale

AutoreSilvia Puccini
Occupazione dell'autoreAvvocato del foro di Livorno
Pagine109-136

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@1. La formulazione dell’art. 69 c.p. e la sua effettiva funzione

L’art. 69 c.p. disciplina il concorso eterogeneo di circostanze attraverso l’istituto del bilanciamento1, secondo il quale il giudice deve procedere a un giudizio complessivo sulle circostanze del fatto, in termini di prevalenza delle attenuanti o delle aggravanti (art. 69, co. 1 o 2, c.p.), oppure di equivalenza fra le stesse (art. 69, co. 3, c.p.). In questo modo, si consente all’interprete di effettuare una valutazione unitaria della fattispecie concreta, comprensiva tanto delle circostanze attenuanti quanto di quelle aggravanti, per giungere a determinare la pena più adeguata al caso di specie.

Nella formulazione originaria, l’art. 69 c.p. permetteva soltanto parzialmente la ricostruzione globale del fatto, poiché restavano escluse dal bilanciamento quelle circostanze che comportassero l’applicazione di una pena di specie diversa o determinata in modo indipendente dalla pena edittale prevista per il reato semplice (cd. circostanze autonome), nonché le circostanze inerenti la persona del colpevole. Tale scelta si fondava sulla valutazione della diversa portata e funzione che hanno queste due tipologie di circostanze rispetto alle altre. Si riteneva, infatti, che, determinando una nuova cornice edittale, le circostanze autonome fossero espressione di una valutazione legislativa di minore o maggiore gravità del fatto, talmente incisiva da non poter essere raffrontata con la portata meramente graduante delle altre circostanze. Allo stesso modo, non sembrava possibile mettere sullo stesso piano le circostanze personali e quelle reali: mentre queste ultime sono funzionali alla descrizione della gravità del fatto, le prime riguardano la maggiore o minore responsabilità del colpevole e, pertanto, si pongono su un piano diverso da quello oggettivo2.

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Data la limitazione dell’ambito di operatività del giudizio di bilanciamento, parte della dottrina3 aveva evidenziato come si determinasse un notevole contrasto con la presunta funzione di individualizzazione della pena attribuita all’istituto. Nella relazione al progetto definitivo del codice penale si legge, infatti, che la disciplina dell’art. 69 c.p. è ispirata “dalla necessità che il giudice abbia una visione completa e organica del colpevole e del reato da questo commesso, in modo che la pena da applicare in concreto sia, per quanto è possibile, il risultato di un giudizio complessivo e sintetico sulla personalità del reo e sulla gravità del fatto”4. L’esclusione di intere categorie di fattispecie accessorie dal giudizio di bilanciamento risultava, evidentemente, in contrasto con le finalità assegnate al meccanismo disciplinato all’art. 69 c.p.

È stata, allora, proposta una diversa e autorevole interpretazione, secondo la quale il bilanciamento non sarebbe funzionale tanto a una valutazione globale del fatto, quanto piuttosto a una ricostruzione sintetica dello stesso. Il legislatore avrebbe, cioè, valutato a priori il fatto non circostanziato, attribuendogli un determinato disvalore intrinseco, suscettibile di essere modificato dalla presenza di circostanze di segno opposto, cosicché all’interprete sarebbe rimesso il compito di giudicare se il predetto mutamento possa sinteticamente esprimersi nel senso di un aggravamento o di un’attenuazione. Il bilanciamento consentirebbe una nuova valutazione unitaria volta ad “affermare che il fatto risulta nel complesso aggravato, attenuato, oppure non può dirsi né aggravato né attenuato5, ma sostanzialmente corrispondente alla fattispecie semplice. Pertanto, all’esito della comparazione fra circostanze si determinerà una modifica della pena in astratto, e non un adeguamento della pena in concreto: “l’oggetto della valutazione comparativa è costituito da elementi che alterano il disvalore del fatto e pertanto incidono sulla cornice della pena, prima che sulla misura sanzionatoria concreta”6. Del resto, l’art. 69 c.p. prevede una vera e propria “elisione” di alcune circostanze e, quindi, una visione tutt’altro che globalizzante: le circostanze ritenute soccombenti o equivalenti perdono il loro effetto di modifica della pena-base, dato che l’art. 69 c.p. richiede espressamente che di esse non si tenga conto a tale fine. Questa interpretazione si fondava, altresì, sulla considerazione di altri istituti strettamente correlati alla pena principale, primo fra tutti la prescrizione del reato, come disciplinata dall’art. 157 c.p. Prima della riforma operata dalla l. 5 dicembre 2005, n. 251 (cd. ex Cirielli)7, i termini prescrizionali erano (e sono ancora) individuati in relazione al massimo edittale, “alla minaccia astratta di pena e non alla concreta commisurazionePage 111giudiziale”8. Poiché, ai sensi del previgente art. 157, co. 2 e 3, c.p., sulla determinazione del tempo necessario a prescrivere incideva la computazione dell’effetto attenuante o aggravante delle circostanze e la comparazione fra di esse, era consequenziale e logico ritenere che il bilanciamento, incidendo sulla quantità di tempo necessaria per l’estinzione del reato, producesse effetti sul piano della pena in astratto e non sulla pena in concreto9. Il richiamo effettuato dall’art. 157 c.p. al meccanismo del bilanciamento non poteva non destare perplessità, tenuto conto del fondamento dell’istituto prescrizionale, che essendo legato all’oblio sociale e di riflesso alla gravità in astratto del reato, si rivela in contraddizione con valutazioni legate alle peculiarità del caso concreto. Alla luce delle modifiche introdotte dalla cd. ex Cirielli, la diatriba in questione potrebbe aver perso gran parte del suo peso, in quanto, come si vedrà più dettagliatamente avanti, l’art. 157 c.p. in materia di prescrizione ha subito un profondo mutamento proprio in relazione alla capacità delle circostanze del reato di condizionare il termine prescrizionale10.

La predetta lettura dell’art. 69 c.p. ha perso parte del proprio fondamento giustificativo in seguito alla riforma a opera del d.l. n. 99/1974, conv. in l. n. 220/1974. Come è noto, con tale intervento, il legislatore ha eliminato ogni limite oggettivo all’effettuazione del giudizio di comparazione delle circostanze di segno opposto, estendendo espressamente l’applicazione dell’art. 69 c.p. anche alle circostanze inerenti la persona del colpevole e a quelle autonome11. Sono stati così notevolmente ampliati i poteri di valutazione discrezionale del giudice, il quale può neutralizzare la portata di una circostanza autonoma in grado di modificare profondamente le conseguenze sanzionatorie del fatto, anche con il mero riscontro di una circostanza ad effetto comune di segno opposto, che ritenga di dichiarare prevalente o equivalente. Si pensi, ad es., alle circostanze aggravanti speciali dell’omicidio di cui agli artt. 576 e 577 c.p. (che comportano l’applicazione della pena dell’ergastolo, a causa del profondo disvalore ‘aggiuntivo’ che esse implicano rispetto al reato semplice): la presenza di un’attenuante comune (fra quelle contemplate all’art. 62 c.p.), ritenuta equivalente o prevalente, imporrebbe di ritornare alla cornice edittale dell’art. 575 c.p., o addirittura di applicare l’attenuazione fino a un terzo della pena base determinata alla luce di tale forbice sanzionatoria12.

In realtà, gli effetti ampliativi dei poteri discrezionali del giudice erano direttamente strumentali e necessari alla ratio della legge del 1974: attraverso questa riforma, il legislatore intendeva, infatti, evitare di procedere alla “revisione della parte speciale e dei limitiPage 112edittali spesso anacronistici”13. Tali operazioni avrebbero richiesto una modifica specifica delle varie fattispecie di parte speciale ossia la revisione dei limiti edittali previsti nelle varie fattispecie incriminatrici. Si è ritenuto, invece, che l’adeguamento delle pene alla mutata percezione etico-sociale del disvalore, potesse essere rimesso alla verifica giudiziale, attraverso un’applicazione ‘dilatata’ del bilanciamento fra circostanze. Riconoscendo al giudice poteri sostanzialmente illimitati di valutazione degli elementi accidentali e affidando al medesimo il compito di individuare discrezionalmente la pena più adeguata al caso concreto, si è posta in essere una vera e propria “abdicazione del legislatore”14.

Successivamente alla riforma del 1974, si è tornati a sostenere che l’art. 69 c.p. costituisce uno strumento di individuazione della pena più adatta al caso concreto e non un istituto in grado di modificare la cornice edittale concepita dal legislatore per il reato semplice15. Non si può più ritenere che la funzione individualizzante del bilanciamento sia preclusa per l’esclusione da tale giudizio di alcune categorie di circostanze, sul presupposto che il novellato art. 69 c.p. non avrebbe più alcun limite oggettivo di applicabilità: tornerebbe, dunque, a essere pienamente condivisibile la lettura tradizionale, secondo la quale “il giudizio di prevalenza o di equivalenza costituisce uno strumento di commisurazione della pena al caso concreto”16. In ogni caso, occorre ‘fare i conti’ con il rilievo critico in ordine all’“elisione” degli effetti conseguenti alle circostanze dichiarate soccombenti o equivalenti, che si pone in contrasto con la valutazione “globalizzante” del fatto verso cui tenderebbe l’art. 69 c.p. A ben vedere, le circostanze non prevalenti (che vedono elisa la loro incidenza sulla pena tramite il bilanciamento) non perdono completamente rilevanza: esse divengono elementi valutabili ex art. 133 c.p., ai fini dell’individuazione della pena base, quali circostanze improprie. Se, da un lato, non pare, quindi, corretto affermare che l’art. 69 c.p. comporti una totale eliminazione degli elementi accidentali dichiarati soccombenti o equivalenti, dall’altro, tale considerazione non risulta sufficiente a contraddire la funzione del bilanciamento di individualizzazione della pena in concreto17.

In conclusione, a seguito della riforma...

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