L’autonomia delle federazioni sportive

AutoreMassimo Basile
Pagine13-39

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@1. Premesse

Notoriamente le analisi giuridiche che hanno ad oggetto fenomeni dello sport organizzato sono rese difficili dall’essere quest’ultimo “servo” di due “padroni”, identificati con le formule “ordinamento sportivo” e “ordinamento statale”, e dall’essere entrambi i “padroni”, a loro volta, assai enigmatici e riassunti in dette formule con ter- mini (com’è inevitabile) semplificanti e imprecisi1.

L’esistenza di un “ordinamento (giuridico) sportivo” può dirsi acquisita, non foss’altro perché ne ha preso atto lo stesso legislatore statale. Quali siano con esattezza l’oggetto e il valore di questa presa d’atto è tuttavia tanto controverso quanto arduo stabilire. Di quell’ordinamento viene riconosciuta la normatività (cfr., ad esempio, l’art. 2, comma 1, l. 17 ottobre 2003, n. 280); ma si è consapevoli che essa non ne esaurisce il contenuto, almeno secondo la ricostruzione del concetto di “ordinamento giuridico” effettuata da Santi Romano e dalla scuola di pensiero che a lui si richiama, secondo la quale di quel concetto fanno parte al contempo l’insieme dei soggetti destinatari delle regole dell’ordinamento, e la complessa struttura organizzativa di cui il medesimo è dotato2. Da noi l’ordinamento sportivo sembra riconosciuto in simile più ampia accezione (cfr. l’art. 1, comma 1, l. n. 280/2003), giustificata dalla circostanza che allo sport si dedica una massa di persone provvista non solo di un proprio sistema di regole ma anche di una propria organizzazione.

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Lo sport organizzato ha anzi dimensioni quasi planetarie; tant’è che il nostro legislatore “riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale” (art. 1, comma 1, cit.)3. In un contesto del genere, ha sorpreso – e agli interpreti richiede arditi esercizi ermeneutici – l’essere stato incluso nel 2001 l’«ordinamento sportivo» fra le «materie di legislazione concorrente» (cfr. il terzo comma dell’art. 117 Cost.), con la conseguenza che la potestà legislativa su di esso spetta alle Regioni, mentre allo Stato compete determinare solo i princìpi fondamentali4.

Invero, negli ultimi anni il legislatore statale ha moltiplicato gli interventi in materia introducendo spesso discipline di dettaglio. Per i primi decenni posteriori alla l. 16 febbraio 1942, n. 426 – che aveva istituito il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) fissandone la struttura interna – gli unici apporti di rilievo a carattere generale si erano concretizzati in norme attuative di quella legge (cfr., in particolare, il d.p.r. 2 agosto 1974, n. 530, e successive modifiche). Poi la forza inarrestabile dei fatti ha richiesto al legislatore una maggiore presenza sul campo, non di rado occasionata, nella forma e nella sostanza, dalla necessità di fronteggiare gli effetti che impreviste pronunzie giudiziali avrebbero prodotto sulla prassi consolidata dei rapporti fra i protagonisti dello sport, e sull’inizio di popolari competizioni agonistiche. Così, la preminenza via via assunta dalla imprenditorialità e dal professionismo, rispetto alle classiche pratiche non commerciali e amatoriali, ha indotto a prescrivere alle associazioni che partecipano ai campionati maggiori una veste societaria, e a introdurre apposite regole sui rapporti di lavoro da esse istituiti con gli atleti che vi prestano le loro energie (l. 23 marzo 1981, n. 91). La diffusione delle scommesse sui risultati delle gare e la scoperta di accordi diretti a falsarli ha aperto la strada ad una normativa di contrasto delle frodi (l. 13 dicembre 1989, n. 401). La delega parlamentare per la riforma della pubblica amministrazione (contenuta nell’art. 11, comma 1, lett. b, l. 15 marzo 1997, n. 59) ha portato ad un riordino organizzativo del CONI (d. l.vo 23 luglio 1999, n. 242: c.d. decreto Melandri)5. Nel contempo è venuta ad imporsi con tutto il suo peso la dimensione so-Page 15pranazionale dello sport agonistico, che ha inciso ora direttamente ora indirettamente anche sulla sua regolamentazione giuridica. L’incidenza si è manifestata soprattutto nella lotta verso due delle piaghe più profonde: l’impiego da parte degli atleti di sostanze “dopanti” per elevare il livello delle loro prestazioni; e la violenza dei “tifosi” in coincidenza con gare di grande impatto sociale, da essi viste talvolta come teatri privilegiati per divulgare ideologie eversive. Esemplari in tal senso sono, rispettivamente, la l. 4 dicembre 2000, n. 376, e la l. 24 aprile 2003, n. 88 (modificata e integrata dalla l. 4 aprile 2007, n. 41). La gravità dei provvedimenti resi dai giudici “domestici” in materia disciplinare o di ammissione alle competizioni ha, poi, accresciuto le domande dei soggetti che ne sono stati vittime volte ad ottenere tutela dai giudici statali, con l’inevitabile aumento dell’incertezza sulla validità e sull’efficacia delle decisioni dei giu dici sportivi. Da qui il proposito di mettere un qualche ordine ai rapporti fra le due giurisdizioni con la l. n. 280/2003. In ultimo, vanno segnalate – oltre alle modifiche ed integrazioni al cit. decreto Melandri compiute con il d. l.vo 8 gennaio 2004, n. 15 (detto Urbani Pescante) – le norme introdotte per “garantire la trasparenza e l’efficienza del mercato dei diritti audiovisivi” sulle competizioni, che testimoniano meglio di ogni altro provvedimento le nuove valenze economiche finanziarie e commerciali oggi acquisite dalle gare sportive (d. l.vo 9 gennaio 2008, n. 9).

Ma non si coglierebbe in pieno l’impatto dell’ordinamento statale sulle vicende dello sport se non si considerasse nella debita misura pure la circostanza che il medesimo ordinamento ne condiziona i modi di essere (e di dover essere) a causa della loro riconducibilità al diritto comune, oltre che alle “leggi speciali” che si succedono senza sosta. Né si sottovaluti il fatto che all’aumento del contenzioso sottoposto ai giudici dello Stato si accompagna la crescita degli apporti giurisprudenziali alla formazione del diritto sportivo.

Il consolidarsi nell’ordinamento repubblicano di una sostanziosa legislazione mette sempre più spesso in discussione la consistenza dell’ordinamento sportivo; e diviene causa di problemi di vario tipo, che i giuristi sono impegnati a risolvere. I principali nodi da sciogliere ruotano attorno a due domande ineludibili per chi voglia studiare con successo i rapporti fra sport e diritto. La più classica resta quella del grado di “autonomia” riconosciuto e/o riconoscibile all’ordinamento sportivo, e delle sue forme di tutela6. Tuttavia, mano a mano che nell’ordinamento statale va prendendo corpo un insieme di norme volte a regolare specificamente le vicende dello sport, diviene sempre più pressante anche un’altra domanda: quella del grado di “specialità” che il diritto sportivo ha, può avere ed è opportuno che abbia – rispetto al diritto comune (sia esso prodotto dal legislatore statale o da legislatori sopranazionali, a partire da quello europeo) – senza creare o permettere privilegi, disparità di trattamento, lesioniPage 16di diritti fondamentali, o altri simili disvalori, con le conseguenze invalidanti che ne derivano7.

In questa sede il discorso resterà nell’ambito della “autonomia” dell’“ordinamento sportivo”, muovendo da accezioni molto ampie di entrambe queste formule, in particolare impiegando la seconda con il significato invalso a seguito dei contributi di M.S. Giannini8, e la prima nel senso di libertà che le organizzazioni dello sport hanno – e possono avere – nello stabilire le proprie norme, i propri organi, i propri membri, e i modi delle proprie azioni. In proposito occorre però qualche altra avvertenza.

Si è riferito che il principio di autonomia dell’ordinamento sportivo si trova richiamato negli artt. 1 e 2 l. n. 280/2003. Si deve ora precisare che nel nostro diritto tale autonomia non risulta solo da queste disposizioni, e che quindi ogni pretesa di identificarne il contenuto solo tramite esse ne tradirebbe il valore9. Si aggiunga che lo sport organizzato costituisce una realtà multidimensionale, le cui strutture interne godono di autonomia differenziata: il Comitato Internazionale Olimpico, il CONI, le Federazioni sportive, le associazioni e le società affiliate, e così via, non si trovano in eguale posizione giuridica; ed hanno poteri e spazi di libertà molto diversi. Anche alla luce di questa circostanza è opportuno che ai discorsi sull’autonomia dell’ordinamento sportivo compartecipino giuristi di diversa specializzazione, ognuno dei quali approfondisca e chiarisca gli aspetti di propria competenza in un fecondo dialogo interdisciplinare. Oggi compete al civilista illustrare fondamento e portata dell’autonomia delle federazioni, cui da un decennio vengono riconosciute ex lege natura associativa e personalità di diritto privato (art. 15, comma 2, d. lg.vo n. 242/1999)10, nella consapevolezza però dell’applicabilità ad esse anche di norme e princìpi di altri settori giuridici, a partire dal diritto pubblico. Su quali presupposti e in quale misura ciò sia possibile merita di essere chiarito in via preliminare.

@2. Le federazioni fra diritto privato e diritto pubblico

Da molto tempo la presa d’atto che le federazioni sono soggette anche all’ordinamento statale ha posto l’esigenza di precisare se e quando ad esse si applichi di questo la parte pubblicista oppure quella privatista. Da qui l’annoso dibattito se siano enti pubblici o enti privati.

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Il problema ha assunto rilievo pratico soprattutto per le conseguenze che la qualifica può determinare in punto di giurisdizione, in specie per stabilire se le controversie in materia debbano essere decise dai giudici ordinari o dai giudici amministrativi. Ma non vanno sottovalutate le ricadute che la soluzione del problema ha dal punto di vista del diritto sostanziale. A entrare in gioco è, in primo luogo, la l. 7 agosto 1990, n. 241, destinata a valere anche per i...

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