Delitto di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”: elementi costitutivi

AutoreAngelo Vita
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1. Premessa

Come è noto da tempo, il traffico illecito di rifiuti rappresenta un settore dal quale la criminalità organizzata ricava profitti di dimensioni enormi. È evidente del resto quali conseguenze abbia per la tutela dell’ambiente e della salute pubblica lo sversamento continuato ed indiscriminato di tonnellate di rifiuti sul territorio.

L’unico strumento predisposto dal legislatore per contrastare tale fenomeno è quello previsto dall’art. 260 del D.L.vo 152/2006. La formulazione non chiarissima del testo e l’importanza che assume la norma nella lotta alle c.d. “ecomafie” inducono ad una rivisitazione delle questioni di maggiore spessore sollevate, nonché ad una esposizione delle tesi proposte dalla dottrina e dalla giurisprudenza dimerito e di legittimità.

Appare utile in principio, però, dare qualche cenno del contesto giuridico-culturale che ha prodotto la norma, come pure delle più importanti proposte legislative di riorganizzazione del settore dei crimini ambientali, di cui il traffico illecito di rifiuti costituisce sezione di ampio rilievo.

2. La cornice europea

In ambito europeo si è subito acquisita consapevolezza che le varie direttive CEE in materia di acqua, aria e rifiuti fossero insufficienti per la tutela dell’ambiente e che fosse necessario affrontare e risolvere il problema della criminalità ambientale per assicurare un livello adeguato di protezione dell’ambiente, obiettivo riconosciuto e sancito dal Trattato CE (art. 174 par. 2).

Già nel 1998 fu adottata dal Consiglio d’Europa la convenzione sulla tutela penale dell’ambiente.1 La convenzione, stipulata a Strasburgo il 14 novembre, non fu però ratificata da nessun Paese per il trasferimento della tematica in ambito comunitario (il Consiglio d’Europa, infatti, non è organo dell’Unione europea, come il Consiglio dell’Unione europea).

Successivamente, il Consiglio europeo, riunito a Tampere il 15 e 16 ottobre 1999, chiese alle istituzioni comunitarie uno sforzo per concordare definizioni, incriminazioni e sanzioni comuni per un numero limitato di attività criminose particolarmente gravi, ivi compresi i reati ambientali.

Nel 2001, su iniziativa del Regno di Danimarca, fu adottata dalla Commissione una proposta di direttiva sulla tutela penale dell’ambiente. Scopo del provvedimento era quello di individuare un insieme minimo di reati ambientali per tutta la Comunità, così da garantire un’applicazione più efficace della normativa comunitaria sulla tutela ambientale.

Tale proposta non si tradusse in direttiva in quanto il Consiglio ritenne che la materia appartenesse al c.d. “terzo pilastro”, relativo alla realizzazione di quello “spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia” previsto dal trattato di Maastricht.

Fu quindi adottata il 27 gennaio 2003 la Decisione Quadro 2003/80/GAI del Consiglio riguardo alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale, che riprende, almeno per ciò che riguarda l’argomento in parola, quanto già fissato nella Convenzione del 1998.

La Commissione, che già nel 2001 2 aveva affermato che un “acquis communitaire in materia di reati contro l’ambiente può e deve essere stabilito nell’ambito del diritto comunitario”, ricorse alla Corte Europea di Giustizia avverso tale atto.

La Corte, costituita in Grande Sezione, annullò la decisione quadro 3 perché per finalità e contenuto, riguardando la tutela dell’ambiente, alcuni degli articoli che la compongono avrebbero potuto (e dovuto) essere validamente adottati sulla base dell’art. 175 CE.

Nella sentenza si riconoscono le ragioni della Commissione e si afferma che “la tutela dell’ambiente costituisce uno degli obiettivi essenziali della Comunità”, ed è pertanto riconducibile al c.d. “primo pilastro”, nel cui ambito gli artt. 174-176 del Trattato “costituiscono, in via di principio, la cornice normativa entro la quale deve attuarsi la politica comunitaria in materia ambientale”.4

Pertanto, in esito a questa actio finium regundorum, la Commissione ha presentato in data 9 febbraio 2007 la proposta n. Com. 2007/51 sulla tutela penale dell’ambiente.

Coerentemente alla proposta è stata infine emanata la direttiva 2008/99/CE in data 19 novembre 2008, che dà obbligo agli Stati membri di conformare gli ordinamenti interni al suo contenuto al più tardi entro il 26 dicembre 2010.

Per quanto riguarda la gestione illecita dei rifiuti la direttiva individua quale reato “la raccolta, il trasporto, il recupero o lo smaltimento di rifiuti, comprese la sorveglian-

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za di tali operazioni e il controllo dei siti di smaltimento successivo alla loro chiusura nonché l’attività effettuata in quanto commerciante o intermediario (gestione dei rifiuti), che provochi o possa provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora”.

Rispetto alla decisione quadro la Direttiva aggiunge il reato di spedizioni di rifiuti, al fine di tener conto della nuova normativa comunitaria.5 In base a tale previsione, le spedizioni di rifiuti devono considerarsi reati penalmente perseguibili solo nei casi più gravi, cioè quando interessino “quantità non trascurabili” di rifiuti.

Del contenuto della Direttiva si parlerà più diffusamente nel seguito. In questo momento occorre comunque evidenziare che, rispetto alla Convenzione del 1998, vi è una parziale ma significativa modifica che riguarda l’elemento psicologico del reato, con riferimento in particolare ai reati colposi. La Convenzione COE impegna gli Stati ad adottare misure adeguate per punire i fatti anzidetti se commessi con negligenza, ossia colposamente (ogni Stato, però avrebbe potuto limitare la responsabilità ai soli casi di negligenza grave - cd “gross negligence” - depositando una apposita riserva). Nella direttiva, invece, i reati previsti sono imputabili solo per dolo o grave negligenza.6

Appare infine interessante evidenziare come la proposta di direttiva tenesse in considerazione anche i reati quando “sono commessi nell’ambito di una organizzazione criminale”, con un rinvio ad una futura decisione quadro sul crimine organizzato.

3. La legislazione nazionale

L’art. 260 del D.L.vo 152/2006 ripropone la formulazione dell’art. 53-bis del D.L.vo 22/97.

Si ricorda, però, che nella prima stesura del Decreto Ronchi non si prevedeva il reato di “attività organizzate per il traffico illecito dei rifiuti”. L’art. 53-bis fu introdotto solo successivamente dall’art. 22 della legge 23 marzo 2001 n. 93, per sopperire al vuoto legislativo riguardante le ipotesi a maggiore contenuto di disvalore sociale.

Era la prima volta che nel nostro ordinamento un reato ambientale assurgeva ad ipotesi delittuosa.

Tale previsione era stata ritenuta necessaria dopo che la Commissione Ecomafia del Ministero dell’Ambiente aveva ritenuto che le ipotesi contravvenzionali del Decreto Ronchi fossero inefficaci per contrastare i traffici illeciti di rifiuti. In particolare, nell’ambito della predetta Commissione, la sottocommissione presieduta dal prof. Adelmo Manna realizzò un progetto legislativo che prevedeva l’introduzione, nel Libro II del codice penale, del Titolo VI-bis, rubricato “delitti contro l’ambiente”.

Tale progetto, che costituisce il punto di partenza di tutti i successivi tentativi di codificazione in materia di “crimini ambientali”, mirava a realizzare in un unico contesto la tutela penale dell’ambiente e dei beni culturali, prevedendo l’introduzione, da un lato, di specifiche fattispecie di reato per l’«inquinamento ambientale», il “traf- fico di rifiuti”, la “frode in materia ambientale”, e, dall’altro, di reati quali “l’alterazione del patrimonio naturale” e l’«alterazione del patrimonio culturale», oltre a contenere una specifica ipotesi di reato associativo.

L’idea guida della Commissione era pertanto quella di inserire nel contesto del codice penale, e non nella disciplina specialistica dei rifiuti, talune fattispecie di reato raccolte sotto un autonomo titolo (dei “delitti contro l’ambiente”) che fossero in grado di ridisegnare il contesto di una più efficace e organica tutela penale del patrimonio ambientale.

Una rivisitazione dei reati ambientali nel senso di dare maggiore efficacia alla loro funzione repressiva ha impegnato successivamente numerosi disegni di legge di iniziativa parlamentare,7 di cui per brevità non si darà conto.

È invece opportuno soffermarsi brevemente sul ddl n. C-2692, proposto dal Ministro dell’ambiente e dal Ministro della giustizia, approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 aprile 2007 e presentato alla Camera dei Deputati il 22 maggio 2007.

Il ddl reca “disposizioni concernenti i delitti contro l’ambiente” e si muove lungo tre distinte linee direttrici:

- in primo luogo, si è scelto di non riservare la tutela penale dell’ambiente al solo ambito codicistico. È stato ritenuto infatti che le contravvenzioni meramente “formali” (i.e., mancanza di autorizzazione o violazione delle prescrizioni contenute nella stessa), nonché i reati di c.d. “pericolo astratto” (i.e., superamento di soglie di inquinamento predeterminate dalla legge) debbano continuare, per la loro stretta prossimità con la normativa di carattere tecnico, ad essere disciplinate dalla normativa extracodicistica in materia di ambiente e segnatamente dal codice dell’ambiente, riservandosi al codice penale la materia dei delitti, colposi o dolosi, di pericolo concreto o di danno;

- in secondo luogo, si è optato di strutturare i reati in ragione del crescente grado di offesa al bene giuridico tutelato: dal pericolo concreto al danno, fino al “disastro ambientale”;

- in terzo luogo si è scelto di riconoscere ai delitti introdotti natura dolosa, prevedendo poi la punibilità di talune fattispecie di reato a titolo di colpa, per coprire le varie realtà fenomeniche.

In particolare il ddl prevede l’introduzione nel Libro II del codice penale del titolo VI-bis, rubricato “Dei delitti contro l’ambiente”, nel quale...

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