L'attentato, l'alto tradimento e la sentenza sul disastro aereo di ustica

AutorePompeo Pizzini
Pagine1041-1046

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@1. Profili etimologici e storici della categoria dogmatica dei delitti di attentato. Rilevanza dell'evoluzione concettuale del tentativo.

L'attentato è una tipologia di reato che, in modo più accentuato rispetto alle altre, esige, per intenderne correttamente la natura e le peculiarità, che lo studioso preliminarmente richiami alla mente il suo significato etimologico, nonché le ragioni storiche che hanno imposto il suo ormai pacifico riconoscimento quale autonomo modello criminoso.

L'origine del vocabolo attentato è da ravvisarsi nel verbo latino tendere ed in quello greco t í, il significato dei quali, alla stregua di un certo valore riflessivo comune ad entrambi, consiste nel dirigersi verso un luogo. Il senso fisico di movimento espresso dal verbo tendo da cui derivarono il tempto e la temptatio, aventi significato di tentativo e di attacco, fu rafforzato con la preposizione a tali vocaboli della particella «ad»; questa operazione linguistica produsse come risultati finali, da un lato, attempto, nel senso di attaccare, assalire, aggredire, e dall'altro, attentatio, usato per indicare il tentativo.

Sul piano semantico-lessicale non è mai esistita alcuna diversità tra tentativo ed attentato, ambedue indifferentemente impiegati per indicare ogni attività diretta a perseguire l'illecito, tant'è che costante sinonimia risulta nelle fonti romanistiche tra temptatio ed attentatio (sebbene sia a quest'ultima che il linguaggio giuridico e la letteratura abbiano fatto maggiore ricorso) e nel primo volgare italiano tra «attentare» e «tentare», così come poi è avvenuto fino a tempi relativamente recenti.

Lo stesso, invece, non può dirsi sul piano formale. Nel nostro diritto positivo, mentre il tentativo (che, com'è noto, è cosa distinta dal delitto tentato) costituisce istituto di parte generale, l'attentato è previsto come tecnica di costruzione di singole fattispecie criminose di parte speciale, normalmente riconoscibili dalle espressioni «chiunque attenta a...» ovvero «chiunque compie atti diretti a...». Fu l'insigne CARNELUTTI, nel 1933, ad aver desunto dalle caratteristiche strutturali comuni alle fattispecie de quibus l'esigenza di elaborare, accanto a quella del tentativo, la teoria di una figura astratta denominata «delitto di attentato», alla quale, da allora, è unanimemente riconosciuta la natura di autonomo istituto di parte generale che trascende le singole fattispecie di parte speciale.

La diversa sistemazione riservata nei codici rispettivamente al tentativo e all'attentato è dovuta a ragioni di natura storica.

Nel diritto più antico il tentativo era sconosciuto, si distingueva solo tra consumazione e non consumazione, sussumendosi in quest'ultima ogni manifestazione esterna della volontà delittuosa, considerata nella sua oggettiva portata, dalla più remota alla più prossima alla consumazione. La punibilità di attività che non avevano raggiunto il momento consumativo era riservata ai delitti contro lo Stato e, solo eccezionalmente, ai più gravi delitti comuni (Lex Cornelia de sicariis et de veneficiis, Lex Pompeia de parricidiis).

Il particolare riguardo riservato alla punizione di condotte in qualunque modo dirette alla perpetrazione di crimini contro il potere reggente che non raggiungevano lo stadio della consumazione era alla base dei crimina laesae majestatis. Fattispecie preordinate, cioè, alla salvaguardia degli interessi e della vita del Principe - e in seguito dello Stato - le quali, come è noto, essendo incentrate su obblighi di obbedienza privi di tipizzazione e rimessi alla mutevole considerazione del sovrano stesso, costituirono uno strumento di repressione pressoché assoluta. Nella prassi, l'arretramento della soglia di punibilità fino agli atti preparatori dell'iter criminis fu arbitrariamente adattato ex post ad ogni forma di opposizione politica, consentendo così di reprimere ogni dissenso - espresso anche solo sintomaticamente da qualsiasi contegno - sia pure ideologico, avverso il potere di governo.

Bisogna risalire alla fine del '700 per rintracciare il momento storico-culturale in cui incomincia ad emergere la moderna concezione del delitto tentato e conseguentemente ad incrinarsi l'antica sinonimia con l'attentato 1.

All'epoca, la Scuola classica di diritto penale, in sintonia con il migliore contributo del pensiero illuministico e delle rivoluzioni liberali, intuì che la struttura del tentativo doveva essere arricchita di contenuti garantistici e per questo ne sancì la necessaria conformità al principio di tipicità, nonché al principio di esecuzione - implicante appunto la sussistenza di atti esecutivi - e, in seguito, nel codice Rocco, al principio di idoneità degli atti.

I detentori del potere politico, per altro verso, si impegnarono perché l'inafferrabile e composita figura della lesa maestà rimanesse sottratta all'azione di riforma del tempo e, in particolare, alla diffusione dei principi che avevano già investito la disciplina del tentativo nei reati comuni e che mal si conciliavano con la peculiare finalità totalitaria e repressiva cui i crimina laesae majestatis erano deputati.

Di talché, mentre gli atti preconsumativi punibili rispetto ai reati comuni rientravano nella formula del tentativo che venne collocata nella parte generale dei codici, quelli, esasperatamente più remoti, concernenti i delitti contro lo Stato, non abbandonarono mai le vecchie fattispecie a tutela degli interessi del prin-Page 1042cipe, onde si è parlato di una vera e propria autonomasia tra l'attentato e le ipotesi di lesa maestà.

La superata sinonimia tra l'attentato ed il tentativo, ad ogni modo, non indusse mai la dottrina dell'epoca a ritenere che vi fosse una distinzione strutturale fra i due modelli criminosi. Tutti i criminalisti di quel secolo si schierarono apertamente contro la sopravvivenza del privilegium principis incarnato dai delitti di lesa maestà, sostenendo vivacemente che per l'attentato, così come per il tentativo, la rilevanza penale fosse subordinata all'accertamento (almeno) di atti di esecuzione.

I lavori preparatori del codice Zanardelli del 1889 riflettevano tale coro unanime della dottrina penalistica e inizialmente si ritenne pure di sancire espressamente nel nuovo codice che la struttura del tentativo e quella dell'attentato avevano nel principio di esecuzione il loro comune fondamento. Zanardelli, però, persuase gli altri compilatori che era opportuno eliminare dal codice l'espressione «attentato» così come la formula «chiunque attenta a» e che, al contempo, fosse superfluo richiedere espressamente, sul piano della rilevanza, la sussistenza di «atti di esecuzione», visto che i medesimi non costituivano una peculiarità dell'attentato, bensì una caratteristica comune a tutti i reati. Incominciava così a delinearsi il principio di offensività al quale oggi sono pacificamente informate tutte le fattispecie criminose.

Si adottò, dunque, l'espressione «fatto diretto a...», ritenuta garanzia sufficiente per mantenere la punibilità dell'attentato nei limiti degli atti esecutivi - da intendersi in modo oggettivo - richiesti per l'integrazione del tentativo punibile. In questo modo i due modelli criminosi tornavano ad essere sinonimi.

Fu, poi, lo Stato autoritario a ripristinare nel (vigente) codice penale del 1930 (che aggrega la materia dei delitti politici intorno al polo della «personalità dello Stato», distinguendo tra delitti contro la personalità «internazionale» e delitti contro la personalità «interna» dello Stato) sia la denominazione di attentato, sia l'interpretazione repressiva dei secoli passati. Ciò si verificò in conseguenza del fatto che la soglia di punibilità dello stesso tentativo - una volta che nell'art. 56 c.p. fu eliminato ogni riferimento agli atti...

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