Art. 49, Comma 2 C.P.: clausola generale di non punibilità

AutoreMarika Scrugli
Pagine996-1003

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  1. Premessa. - Le sentenze in epigrafe 1 costituiscono l'epilogo dell'iter processuale volto all'applicazione della discussa figura del reato impossibile 2 quale clausola generale di non punibilità del reato 3.

    La decisione del giudice di appello, confermativa della sentenza assolutoria di primo grado, perviene alla declaratoria di non punibilità della «falsa dichiarazione inutile» che non abbia ripercussioni sulle finalità dell'atto.

    Il giudice d'appello ha, in sostanza, accolto l'impianto motivazionale offerto dalla sentenza impugnata e dalle argomentazioni difensive.

    L'organo giudicante di prime cure aveva condiviso quell'orientamento dottrinale e giurisprudenziale 4 che considera essenziale, ai fini della configurabilità penalmente rilevante di un fatto di reato, la ricognizione della antigiuridicità, quale misura dell'effettivo contrasto tra fatto tipico ed ordinamento 5, la cui mancanza nella rappresentazione della fattispecie concreta implica l'assenza di un elemento costitutivo del fatto di reato.

    Il giudice, in primo grado e in appello, ha ritenuto opportuno, in considerazione dell'irrilevanza penale del fatto, applicare al caso di specie la clausola generale di cui all'art. 49, comma 2 c.p. in ossequio ai canoni giuridici della ragionevolezza e della logica.

    Gli attuali contributi giurisprudenziali in materia non sono dotati di soddisfacente omogeneità soprattutto se si tiene presente l'atteggiamento assunto da certa giurisprudenza animata da rigoristico spirito di prevenzione e volta a restringere l'area dell'applicabilità del reato impossibile a volte sulla base di atteggiamenti sommari indice di scarsità di chiarezza e di uniformità nell'individuazione delle condotte punibili.

    Sembra opportuno premettere, seppur in via breve, una riflessione di carattere storico sulla genesi del reato impossibile, preannunciando che la necessità della sua applicazione si fonda sul riconoscimento, anche in prospettiva de iure condendo, nel vigente sistema penale, del principio generale di offensività 6 che giustifica la non punibilità di condotte che non esprimono il fine dell'extrema ratio della pena.

    In dottrina il riconoscimento del principio di offensività aveva portato alcuni autori ad affermare la necessità di costruire una disciplina del tentativo libera dai limiti delle teorie soggettive, in modo da enucleare e provare a risolvere quelle ipotesi in cui, non producendosi un'offesa oggettiva si determinava, da un lato l'esclusione della punibilità e d'altro canto la tentazione di anticipare la soglia di rilevanza del pericolo ampliando la punibilità del tentativo 7.

    In particolare, le incertezze riguardavano quelle ipotesi in cui la condotta non costituiva atti idonei a ledere o porre in pericolo in modo non equivoco, ma era oggettivamente nel concreto impossibile capace di ledere.

    Un'azione è semplicemente tentata se idonea e non equivoca, mentre è impossibile quando, pur in astratto idonea, non sia lesiva o pericolosa per l'interesse tutelato 8.

    Si fece palese l'opportunità di una norma con cui disciplinare dette ipotesi e fungere da strumento limitativo della punibilità a titolo di tentativo di condotte che essendo idonee in astratto non avevano prodotto alcuna reale offesa.

    Il codice penale del 1930 traduce positivamente il reato impossibile in una norma che si pone in relazione tra il reato putativo e il delitto tentato.

    Significativi sono stati, in particolare, quegli studi sui rapporti tra evento naturalistico e giuridico, tra reati formali e materiali, sull'offesa (quale contenuto ed elemento costitutivo del reato), perché siffatte argomentazioni, nel trattare del tentativo impossibile o inidoneo all'interno della struttura del reato, conferiscono alla materia una connotazione più pragmatica attraverso pregnanti riferimenti al significato antigiuridico del reato e all'esigenza che ogno illecito si sostanzi nella lesione del bene protetto 9.

    Il legislatore del 1930, attraverso la Relazione ministeriale e i lavori preparatori aveva chiaramente manifestato la volontà di inserire l'art. 49 c.p. come norma generale dell'ordinamento con cui porre il principio che l'idoneità dell'azione costituisce requisito «essenziale di ogni attività illecita, perché possa essere qualificata come delittuosa» 10.

    Le indicazioni espresse dalle commissioni parlamentari sull'operatività dell'art. 49 c.p. non hanno trovato, nel primo trentennio di applicazione del codice, sostenitori in dottrina. Al contrario, l'impostazione tradizionale continuava a riservare al reato impossibile la funzione di limite alla punibilità a titolo di tentativo, quando non ne era addirittura sostenuta la inutilità, quale formula pleonastica in negativo dell'art. 56 c.p. 11.

    Una inversione di prospettiva si manifesta nel momento in cui preoccupazioni in ordine alla punibilità di singole figure di reato mettono in luce l'inopportunità della sanzionePage 997 penale in casi di macroscopica irrilevanza e innocuità del fatto 12.

    La dottrina più recente 13, facendo leva sul principio di necessaria lesività, poggia la rilevanza pratica del reato impossibile su di un quid pluris rispetto al tentativo, ossia nella mancanza della corrispondenza tra la «tipicità» e «l'offesa» al bene protetto.

    Quindi, proprio le condotte formalmente conformi alla fattispecie incriminatrice, ma di fatto «innocue» perché assolutamente incapaci di ledere l'interessato protetto, rientrerebbero nella previsione di non punibilità dell'art. 49, comma 2, c.p.

    E vi farebbero parte in forza del suo carattere di clausola generale.

    Di recente, la prospettiva del dibattito politico-dottrinale sul principio di offensività ha conosciuto un recupero di centralità in prospettiva di riforma, soprattutto in considerazione e, per converso, a causa della crisi sofferta dalla teoria del bene giuridico costituzionale, della quale si è denunciata l'incapacità reale di fungere da efficace strumento selettivo delle condotte penalmente rilevanti.

    Mentre, il suddetto principio, ponendo l'offesa al centro del giudizio sulla rilevanza penale del fatto, consente, da un lato, di riscontrare la pericolosità, sotto il profilo della meritevolezza di pena, di quelle tecniche di normazione penale così anticipatorie della tutela dei beni giuridici e i cui non lodevoli esiti sfociano spesso in forme di ipercriminalizzazione e, dall'altro, la lacunosità di quelle altre tecniche che sebbene improntate ad un più incisivo rispetto delle fondamentali garanzie individuali che si sono tradotte in leggi di depenalizzazione.

    Dalle proposte di riforma è emersa, innanzitutto, l'esigenza di una codificazione, attraverso l'introduzione di un articolo ad hoc, del principio di offensività, sebbene un grosso merito vada riconosciuto agli sforzi operati dalla elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale sul contenuto e la portata di siffatto principio, e, di conseguenza, sulla necessità di una sua corretta applicazione 14.

    Tali esigenze non hanno ancora trovato realizzazione. Ciò che però preme sottolineare, anche alla luce delle considerazioni che appresso saranno avanzate sullo stato dell'arte in dottrina e giurisprudenza, è che indipendentemente da una codificazione del principio di offensività, necessaria risulta una riqualificazione di quelle fattispecie (come i reati di falso, appunto) volta a rendere meno evanescente l'oggetto di tutela e l'esigenza di repressione penale.

    Difatti, se la pena deve costituire una extrema ratio di tutela, la punibilità di condotte presuntivamente offensive non può risultare costituzionalmente tollerabile senza la predisposizione di una sufficiente soglia di lesività, pena la violazione del principio di tassatività.

    La necessità della sanzione penale non può asservire ipotesi in cui a fronte de bene sacrificato l'utilità per il bene salvaguardato sia solo formale.

  2. L'applicazione dell'art. 49, comma 2 c.p. tra dottrina e giurisprudenza. - La dottrina tradizionale 15 ha negato al reato impossibile reale autonomia conettuale, qualificandolo come un tentativo impossibile, un inutile doppione, in negativo, dell'art. 56 c.p. che giustifica l'impunità alla stessa stregua dei principi che regolano il delitto tentato.

    In sintesi, il reato impossibile non raggiungerebbe nemmeno i presupposti del delitto tentato, risolvendosi in un tentativo del tentativo penalmente irrilevante, al più indice di un istinto ribelle.

    I fautori della concezione realistica riconoscono, per contro, nella statuizione di cui all'art. 49, comma 2 c.p., il criterio ispiratore della concezione stessa sulla base dell'assunto che non può esservi reato senza una lesione o messa in pericolo effettiva del bene protetto, dalla quale logicamente discenderebbe la non necessità della pena in virtù della mancata corrispondenza tra tipicità e offesa al bene protetto 16.

    Spostando su un piano esegetico gli elementi di distinzione tra reato impossibile e tentativo, detta concezione argomenta l'autonomia concettuale, in primo luogo sul fatto che la lettera della norma in commento richiede ai fini dell'irrilevanza penale del fatto non «l'inidoneità» degli atti (come l'art. 56 c.p.), bensì dell'azione 17.

    Il tentativo è un delitto perfetto che non ha raggiunto la soglia della consumazione, ma sono stati posti in essere «atti non equivoci diretti in modo univoco» a ledere o porre in pericolo, per cui costituisce, in considerazione della fattispecie criminosa di parte speciale di cui si pongono in essere tali atti, un autonomo titolo di reato.

    Il reato impossibile è un delitto imperfetto perché, pur essendo interamente consumato (ovvero, pur essendo stati posti in essere tutti gli elementi costitutivi), l'azione non è stata, in via intrinseca, capace di realizzare quella tipica offesa al bene protetto prevista dalla norma incriminatrice.

    Un'attenta dottrina pone due obiezioni principali. La prima è che l'art. 49 c.p. non specifica la natura degli interessi tutelati, quindi, non sarebbe possibile stabilire quando vi sia la...

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