Ancora su violenza sessuale e stato di ubriachezza: la musica non cambia

AutorePietro Dubolino
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giur
1/2019 Rivista penale
LEGITTIMITÀ
essersi addormentata per ben due volte nel corso della fe-
sta, circostanze di cui era pienamente consapevole lo stes-
so imputato per essere egli stato presente all’assunzione
delle bevande da parte della vittima per tutta la sera.
7. Ne consegue che, in presenza dei segnalati vizi, la
sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra Se-
zione della Corte di appello di Roma che si atterrà ai prin-
cipi di diritto in precedenza enunciati. (Omissis)
ANCORA SU VIOLENZA
SESSUALE E STATO
DI UBRIACHEZZA:
LA MUSICA NON CAMBIA
di Pietro Dubolino
1. Con la sentenza che qui si riporta la Cassazione tor-
na ad occuparsi di un caso che sembra ormai divenuto, in
materia di reati sessuali, piuttosto frequente, e cioè quel-
lo costituito dal compimento di atti sessuali da parte di
un soggetto di sesso maschile nei confronti di donna in
stato di ubriachezza. E ancora una volta si è ritenuto, da
parte del giudice di legittimità, che in tale situazione sia
da riconoscere la conf‌igurabilità del reato di cui violenza
sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità f‌isica o
psichica della persona offesa, ai sensi dell’art. 609, comma
secondo, n. 1, c.p. Nella specie, peraltro, la Cassazione ha
anche, in via preliminare, preso in esame la questione re-
lativa alla natura che, in generale, deve attribuirsi all’ele-
mento costituito dal dissenso della persona offesa, giun-
gendo all’affermazione che esso deve essere annoverato
tra quelli costitutivi di detto reato. Conviene quindi, per
meglio comprendere e valutare l’“iter” motivazionale della
sentenza, prendere le mosse da tale affermazione, per dire
subito che la stessa appare senz’altro da condividere. Ma,
proprio per questo, è anche da ritenersi che il dissenso,
così come avviene per tutti gli elementi costitutivi di un
qualsiasi reato, debba essere provato dall’accusa e la pro-
va debba essere tale da dimostrarne la sussistenza “al di
là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533 c.p.p.). Solo una
volta che l’accusa abbia assolto a tale onere e l’esito della
prova non sia contestato dall’imputato, potrà assumere
rilievo l’eventuale deduzione, da parte di quest’ultimo,
dell’errore nel quale egli fosse caduto circa la sussistenza
dell’elemento in questione; nel qual caso è corretto ritene-
re, come in effetti si afferma nella sentenza annotata, che
egli sia gravato a sua volta dell’onere della prova o, quanto
meno, di un onere di allegazione degli elementi potenzial-
mente idonei a sostenere il suo assunto.
Nella specie, però, la Corte, nel censurare la motivazio-
ne della sentenza assolutoria d’appello per aver trascurato
di dar conto dell’avvenuto assolvimento di detto onere da
parte dell’imputato, trascura a sua volta di spiegare se e per
quale ragione si dovesse dare per accertata la sussistenza
del relativo presupposto, e cioè che l’accusa avesse dimo-
strato l’oggettiva esistenza del dissenso o che questa, co-
munque, fosse stata data per ammessa da parte della difesa,
tanto da avere quest’ultima “ripiegato”, per così dire, sulla
linea arretrata costituita dalla prospettazione dell’errore.
In realtà la sentenza annotata si limita, in buona so-
stanza, a trarre soltanto dalla formula di proscioglimen-
to (il fatto non costituisce reato), adottata dalla Corte
d’appello la deduzione che questa “sembrerebbe aver op-
tato” per l’ipotesi che l’imputato “fosse incorso in errore
sul fatto circa il manifestato dissenso”, la cui oggettiva
esistenza – si afferma – sarebbe risultata da entrambe le
sentenze di merito. Senonché è proprio da quanto si riferi-
sce nella sentenza annotata circa la motivazione adottata
a sostegno della propria decisione dalla corte d’appello
che emerge come quest’ultima abbia inteso, con ogni evi-
denza, escludere che potesse dirsi dimostrata l’oggettiva
esistenza del dissenso della persona offesa rispetto alla
condotta effettivamente posta in essere dall’imputato,
la quale, come risulta pacif‌ico, si era limitata a baci e
toccamenti, culminando quindi in una penetrazione sol-
tanto digitale nell’organo sessuale della donna. Questo
e non altro appare infatti il senso della riferita afferma-
zione della corte d’appello secondo cui: “Qualche «no»
mormorato ben poteva riferirsi alla richiesta di rapporto
sessuale completo che in effetti non avveniva”. Si tratta,
a ben vedere, di una evidente valutazione di puro merito
che, a stretto rigore, siccome non manifestamente illogica
o contraddittoria, non sarebbe stata censurabile in sede
di legittimità. Ma, anche a voler ritenere il contrario, il
giudice di legittimità avrebbe dovuto allora porre in luce
la sua logica incompatibilità con altri elementi pure risul-
tanti dalla sentenza d’appello o da quella di primo grado,
eventualmente dimostrativi della oggettiva esistenza del
dissenso anche con riguardo alla condotta sopraindicata;
il che non è avvenuto, avendo invece la Corte preferito ri-
volgere le proprie censure alla supposta rilevanza che il
giudice d’appello avrebbe attribuito ad un errore di fatto
dell’imputato in punto di dissenso della vittima; errore del
quale non risulta però in alcun modo, dalla sentenza anno-
tata, l’avvenuta, effettiva prospettazione in sede di merito
e meno che mai la sua ritenuta credibilità e decisività, ai
f‌ini dell’adottata pronuncia assolutoria.
2. Ma si deve a questo punto osservare che, in realtà, la
ragione di fondo posta a base della ritenuta censurabilità
della pronuncia assolutoria è costituita, in ultima anali-
si, secondo la sentenza annotata, dal fatto che la corte
d’appello avrebbe indebitamente attribuito rilevanza al
consenso, poco importa se vero o erroneamente supposto,

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